Relazione Convegno “TEODORO HERZL, CENT’ANNI DOPO”
Pitigliani – Roma 13 e 14 Marzo 2004
Sionismo, democrazia e diritti umani:
contributi storici e nuove prospettive
di Carmine Monaco
Desidero innanzi tutto ringraziare il Presidente della Federazione Sionistica Giuseppe Franchetti e il Presidente del Gruppo Romano Bruno Sed per avermi invitato a questo Convegno, un invito che mi dà molta gioia, anche per il mio passato impegno nell’ambito del Consiglio Direttivo della Federazione delle Associazioni Italia–Israele. Desidero inoltre portarvi il saluto e l’amicizia sincera della Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo e, in particolare, del suo Presidente, l’On. Alfredo Arpaia, dei Senatori Francesco Cossiga, Luigi Compagna e Alfredo Biondi.
La LIDU ha recentemente accolto con grande interesse e convinzione la mia proposta di istituire una Commissione sul terrorismo, in via di formazione, e un Osservatorio sul razzismo e sull’antisemitismo, già avviato e di cui sono il Coordinatore responsabile. Anche alla luce di esperienze come queste è maturato il mio piccolo contributo alla discussione delle tematiche proposte dalla Federazione Sionistica Italiana, un apporto che è quello di un non ebreo, laico e liberale, che da sempre guarda ai valori del Sionismo come a punti di riferimento costanti nella propria vita.
Il messaggio universale del Sionismo
L’adesione alle aspirazioni sionistiche comincia con il riconoscere «che lo Stato di Israele non appartiene solo ai suoi cittadini ma all’intero popolo ebraico», e deriva, nel mio caso, dal “fascino costruttivo” che la cultura ebraica e i suoi valori hanno sempre esercitato su di me; valori dai quali discende, in ultima analisi, tutto ciò che oggi riconduciamo alla sfera della libertà, dei diritti umani e della democrazia.
Le opere del pensiero e della fede ebraica, la produzione filosofica e artistica della diaspora, il pensiero Sionista e la produzione scientifica e intellettuale odierna, sono creazioni dello spirito di una nazione sola e di un popolo solo; creazioni che guidano alla salvezza e alla liberazione in modi e con obiettivi forse solo apparentemente diversi.
Nei testi sacri Dio guida ognuno, mediante la Sua parola e le Sue Leggi, alla salvezza personale. La salvezza nazionale si consegue invece quando un popolo serve Dio rispettandone le Leggi e amando allo stesso modo Lui e il prossimo. Il Sionismo ha contribuito a far sì che la liberazione, la salvezza, il riscatto e l’elezione (le quattro coppe della cena pasquale), vivano ora per Israele, ha restituito la sua Terra al popolo ebraico e può dare ancora molto al mondo, traendo al tempo stesso benefìci importanti per la sua causa, mediante la partecipazione attiva al grande dibattito di questo inizio millennio riguardo alla promozione della democrazia, dei diritti umani e della libertà.
Dal mio punto di vista, credo che, anche a seguito di eventi dolorosi come l’11 settembre e l’11 marzo, oltre che per un reale dialogo interculturale, i differenti modi di intendere le parole “salvezza” e “libertà” nel Giudaismo e nel Cristianesimo, nel Sionismo, nel pensiero laico e liberale moderno e nel diritto, possano e forse finiranno presto per incontrarsi e che, anzi, stiano già oggi scoprendo quanto siano profondamente connessi tra loro.
Ogni cittadino democratico può trarre dai valori del Sionismo grandi benefìci per il proprio personale progresso culturale, morale, etico e politico, qualsiasi sia la sua fede religiosa o il suo credo politico. Le colonne portanti del Sionismo corrispondono infatti a tutto ciò che un essere umano “socialmente compatibile” può desiderare: la libertà e la salvezza, unite ai princìpi di una condotta giusta e di un governo etico, il riscatto finale dei popoli oppressi, il ritorno di ciascuno alla naturale dignità della sua condizione di essere umano creato a immagine e somiglianza divina, con tutti i diritti e i doveri che ciò comporta.
Un sogno che non si potrà realizzare finché ciascun popolo, ciascuna nazione, non potrà vivere in pace e sicurezza secondo leggi giuste. Ma quali sono queste leggi e come si fa a capire se sono giuste?
La sacralità di vita, libertà e pace
Secondo il relativismo culturale imperante, tutte le leggi e le tradizioni sono “giuste”: lo sono per certi popoli. Non è così: se è vero che la vita è sacra, ed è vero sempre, allora una legge è giusta quando rispetta, ad esempio, i principi etici e morali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Se non lo fa, è una legge ingiusta, inapplicabile all’uomo, qualunque sia la fede, il governo o l’ideale politico che la sostiene.
Il relativismo culturale è uno dei principali ostacoli sulla via della realizzazione di un mondo giusto e pacifico, perché è la diretta conseguenza di un pregiudizio secondo cui tante popolazioni sono diverse da noi, non valutabili perciò con il metro di un mondo civilizzato, incapaci di far funzionare una democrazia o qualsiasi forma di governo salvo un governo autocratico.
Quest’idea è razzista in quanto presuppone che tali popolazioni saranno sempre governate da tiranni, per cui l’unica cosa che si può fare è assicurarsi che siano tiranni amici piuttosto che tiranni ostili; è indegna di nazioni civili in quanto dà luogo ad un clima “collaborazionista”, ed è rivelatrice di un grande disprezzo per la storia, le conquiste materiali e spirituali del passato di queste popolazioni e, in fondo, per l’idea stessa di democrazia e dei diritti umani.
Israele, la cui cultura esprime valori cosmopoliti (unendo persone che provengono realmente da ogni parte del mondo), può offrire al Medio Oriente un esempio concreto di come pace, libertà e prosperità possono seguire a tanto odio, oppressione e povertà; di come genti e culture anche molto diverse tra loro possono convivere all’interno di una conformazione democratica e rispettosa dei diritti umani.
David Ben Gurion scrisse che, come tutti i grandi liberatori della storia dell’umanità, Theodor Herzl «aveva piena coscienza del fatto che le sofferenze e la miseria delle masse potevano non essere unicamente fonti di umiliazioni e di debolezza, ma anche convertirsi in fonti di forza e di coraggio, di elevazione e di eroismo, quando erano accompagnate da un’idea di liberazione e di redenzione e quando gli uomini e le loro sofferenze venivano indirizzati alla lotta e alla creazione».
Questa forza creativa ha realizzato un sogno che occorre ancora proteggere da coloro che indirizzano le sofferenze degli uomini verso il fanatismo e la distruzione, finché non sarà completamente al sicuro allorquando, nella visione di Michea, «nazione contro nazione più non leverà la spada, né più s’imparerà a far la guerra» (Michea, IV, 3).
È realizzabile questo mondo di pace? Chi può rispondere ad una simile domanda? Ma è certo che anche alla luce di questa profezia, i Sionisti sono riusciti se non a porre un termine definitivo alle secolari sofferenze del popolo ebraico, almeno a porvi un fortissimo limite. Il prezzo pagato per questa impresa temeraria è stato terrificante. La risposta dei nemici del popolo ebraico è stata tale da non poter essere esaminata senza orrore, soprattutto in Europa.
Suggestionato dall’Illuminismo, Wehle si chiedeva se non fosse stato il Paradiso a subìre, con la cacciata dell’uomo, una perdita più grave di quella subìta dall’uomo stesso. Non sono stato in Paradiso e non posso giudicare, ma so con certezza che sono le Nazioni e, in particolare l’Europa, ad aver perso molto più di quanto abbiano sottratto al popolo ebraico in tanti secoli di persecuzioni. Allo stesso modo, per innumerevoli ragioni di ordine morale, etico, sociale, politico, economico e persino militare, oggi sarebbe per l’Europa un danno incalcolabile cedere al razzismo antisemita di importazione araba e creare le condizioni per un nuovo esodo degli ebrei europei verso Israele o verso altri paesi, come sta già accadendo in Francia. Sarebbe la dimostrazione che la Storia non ci ha insegnato nulla, che 50 milioni di morti, distruzioni oltre ogni immaginazione, la perdita della propria dignità e del proprio ruolo nel mondo, non sono servite a cambiare i vecchi sovrani europei. Equivarrebbe a dimostrare che le nostre sono democrazie di carta, facilmente espugnabili per chiunque sappia adoperare bene denaro e violenza.
Nei paesi democratici, la riflessione sull’aliah come passaggio obbligatorio verso la piena realizzazione dell’ideale Sionista presuppone che questa sia unicamente una libera decisione personale dei cittadini europei ebrei: un “esodo” spirituale seguito ad una propria evoluzione/risoluzione, e non una nuova “fuga” da nuovo razzismo e nuove discriminazioni. Considerando però i tempi, vi chiedo semmai di estendere tale dolce obbligo anche ai sionisti non ebrei come il sottoscritto: potremmo volerne approfittare.
Sionismo e antisionismo
Come scrittore, sarei certo più che onorato di vivere in uno Stato al secondo posto nella graduatoria mondiale per il mercato editoriale complessivo, ovvero per la percentuale pro capite di libri nuovi, di autori israeliani oppure tradotti: milioni di libri all’anno stampati e venduti. Uno Stato le cui Università, centri di ricerca e società continuano a produrre centinaia di scoperte scientifiche e innovazioni in tutti i campi, da quello medico e chirurgico alla sicurezza alle energie rinnovabili: israeliane sono, ad esempio, la tecnologia impiegata per il mega–impianto solare nel deserto meridionale della California e la scoperta di una combinazione di elettrostimolazione e chemioterapia che provoca la scomparsa delle metastasi cancerose.
Tutto questo mentre è in corso una vera e propria guerra travestita da intifada che dura ormai da ben tre anni, un conflitto che ha generato una crisi economica spaventosa e che pure non è riuscito ad intaccare le istituzioni democratiche che guidano ininterrottamente il paese fin dalla sua fondazione (nonostante ben cinque guerre in cinquant’anni), né l’interesse alla pace e alla vita dei suoi cittadini: vi sembra, questo, uno Stato come gli altri?
Se non si trattasse di Israele, i mass–media parlerebbero di una simile Comunità come di una Nazione di eroi, da beatificare in vita. Ma il pregiudizio altrui non toglie che questi siano i veri frutti del Sionismo, questi i suoi più autentici risultati: speranze di pace, prosperità, salute e benessere che possono estendersi all’intero genere umano.
Certo, è comprensibile che, laddove la censura imperante permette, nell’intero mondo arabo, di tradurre al massimo 300 libri l’anno (un quinto rispetto alla sola Grecia), e i best-seller sono I protocolli dei Savi anziani di Sion, il Mein Kampf e il Manuale del perfetto Shaheed, si tenda ad assimilare il Sionismo al razzismo e al nazismo, e l’«entità Sionista» al piccolo satana.
È sicuramente più preoccupante il fatto che, laddove di libri se ne leggono forse anche meno e i dati positivi riguardanti Israele non vengono mai riportati, si preferisca stilare sondaggi truccati che qualificano Israele come la principale minaccia alla pace mondiale e nascondere invece quelle indagini che dimostrano quale sia la vera matrice del moderno antisemitismo; lo capiamo, certo, ma si tratta di atti e omissioni sconcertanti da cui abbiamo il diritto e il dovere di dissociarci.
Cosa sono davvero l’antisionismo e l’antisemitismo moderni?
Intanto bisogna riconoscere che il gioco che coinvolge Israele riguarda tutto il mondo: i paesi arabi, l’Europa, gli Stati Uniti, la Russia, tutti. Sul tavolo c’è molto di più del semplice conflitto israelo–palestinese per un tratto di fiume, qualche pozza d’acqua, una striscia di deserto o i luoghi santi.
L’antisionismo è molto più che antisemitismo col passaporto falso. Esso è, nel mondo arabo, in primo luogo, la pretesa di maggiore influenza e prestigio sullo scenario internazionale, dopo la fine dell’impero sovietico, soprattutto in considerazione del potere contrattuale derivante dall’enorme disponibilità di risorse energetiche e dalla conseguente potenza economica delle famiglie e dei gruppi (e non nazioni) che le gestiscono. I leader politici e gli analisti sanno benissimo che il nostro è un mondo basato sull’energia derivante dai combustibili fossili, avviato nei prossimi anni a consumarne quanto resta, e che la quasi totalità delle riserve petrolifere sarà concentrata nelle mani di alcuni paesi mussulmani. Sappiamo dalle loro stesse dichiarazioni e dai loro atti che i fondamentalisti islamici intendono usare l’arma del petrolio per esercitare pressioni contro gli Stati Uniti e le altre nazioni occidentali che sostengono Israele.
In secondo luogo, l’antisionismo offre ai leader arabi e islamici un pretesto per rinviare le trasformazioni democratiche nei paesi soggetti a regimi autoritari, militari o religiosi che siano. Finché ci sarà il Jihad contro l’imperialismo americano–sionista, “provato” dai già citati Protocolli, in quei paesi non vi sarà mai democrazia né libertà, non vi sarà libera circolazione di beni, merci e idee, né si formerà un ceto medio forte, “borghese”, laico e politicamente influente, che potrebbe far prevalere i suoi “mercantili” interessi alla pace e alla cooperazione con l’Occidente, che va invece conquistato e sottomesso, alla fine dei giorni.
Nel resto del mondo, l’antisionismo è soprattutto una dimostrazione di solidarietà con la “causa araba”, solidarietà tutto sommato a buon mercato, finalizzata ad ottenere concessioni e privilegi economici ed energetici, o anche semplicemente protezione dal terrorismo, sulla pelle degli israeliani. Il ricatto energetico è, come dicevamo, una delle armi più temibili nelle mani dei nemici di Israele, e ciò diventerà tanto più evidente quanto più il prezzo del petrolio si avvicinerà alla fatidica linea dei 40 dollari al barile. L’antisionismo e l’antisemitismo crescono nei nostri civilissimi e democratici paesi in misura direttamente proporzionale al prezzo di ogni singolo barile di petrolio, più che come conseguenza dell’operato di ciascun governo israeliano.
In questo contesto l’antisionismo è anche uno strumento di pressione politica adoperato nei confronti degli Stati Uniti dai suoi antagonisti, vecchi e nuovi, certo, ma come corollario abbiamo fattori non meno importanti, come ad esempio la concorrenza tra Banca Centrale Europea, Federal Reserve e banche svizzere. A quale altro scopo, infatti, la signora Duisenberg esporrebbe la bandiera del “disperato” popolo palestinese alla sua finestra, se non per invitare gli sceicchi a depositare i loro soldi nelle banche del signor Duisenberg? Questo è marketing “avanzato”: parlare la lingua dei propri potenziali clienti, per quanto immorale possa essere…
Come vediamo, nel determinare l’obiettivo finale del Sionismo e di Israele, se quello di avere uno Stato entro i suoi confini storici o uno Stato in pace con i suoi vicini, si deve tener conto di un elevato numero di fattori la cui gestione, purtroppo, è spesso completamente nelle mani altrui.
Il fattore religioso
Purtroppo, laddove c’è di mezzo il potere, gli strumenti analitici della razionalità politica cessano di essere efficaci ai fini della reale comprensione degli eventi. Il fattore religioso è, pur tra i dati cosiddetti “irrazionali”, uno dei più influenti sulla realtà odierna.
Nell’Occidente secolarizzato si dà scarsa importanza al fattore religioso, lo si interpreta quasi come una scoria del passato, ma alcuni aspetti fondamentali del conflitto arabo–israeliano e del confronto tra l’Occidente e il mondo islamico riguardano proprio il modo stesso in cui i popoli coinvolti vedono, da un punto di vista religioso, la “fine dei giorni”, che può svelare spesso lo scopo ultimo e gli ideali che sottendono le azioni e i comportamenti degli attori in campo.
Nel Giudaismo si sa esattamente qual è la visione della fine dei giorni: avverrà come in Isaia – pace tra le nazioni, e non in una nazione, ma tra tutte le nazioni. I popoli non avranno più bisogno di armamenti, i carri armati si trasformeranno in macchine agricole, i deserti fioriranno (in Israele già lo fanno), l’ingiustizia nel mondo sarà debellata e con essa la fame e la sete: una volta annullata la violenza, una volta che l’umanità potrà finalmente utilizzare tutte le sue risorse non per distruggersi l’un l’altro ma per attingere alla fonte della Conoscenza, cambierà la stessa Natura: le asperità del mondo saranno colmate dalla dolcezza della pace. Un bel finale (finalmente), il regno di Dio sulla Terra, dove la vita sarà bellissima. Oppure, per chi è laico, un mondo dove giustizia, pace e libertà prevarranno sulla violenza e sui totalitarismi.
Nella fine dei giorni, l’Islam vede invece un mondo totalmente mussulmano, sotto il governo dell’Islam. Vittoria completa e finale. I cristiani non esisteranno più, in quanto secondo molte tradizioni islamiche, i mussulmani che sono all’inferno saranno sostituiti dai cristiani, qualsiasi cosa abbiano fatto in vita. I giudei non esisteranno più, perché saranno cancellati: prima della venuta della fine dei giorni, ci sarà infatti una guerra nella quale saranno tutti uccisi. Questo è quanto il “cuore” della tradizione mussulmana tramanda, anche mediante i libri che sono letti da ogni bambino mussulmano a scuola, compresi quelli palestinesi finanziati dalla commissione ONU per i rifugiati e dall’Unione Europea. Tutti i giudei saranno uccisi: essi fuggiranno e si nasconderanno dietro gli alberi e dietro le rocce, e in quel giorno Allah darà voce alle rocce e agli alberi ed essi diranno: «Oh Mussulmano vieni qui, vi è un ebreo dietro di me, uccidilo». Senza che ciò avvenga non vi sarà fine dei giorni e la missione non sarà completa. E sappiamo bene che nulla è più pericoloso di un’idea, come diceva Emile-Auguste Chartier, quando è l’unica idea che si ha.
Sono convinto che molti razionali analisti e politologi occidentali in cuor loro sappiano benissimo che questo incitamento all’odio e alla guerra permanente costituisce davvero il fondamento della progettualità politica di gran parte dell’attuale classe dirigente della Lega Araba e, in particolare, di Yasser Arafat e colleghi (come dimostra ampiamente la vicenda del primo ministro malese): una progettualità rispettosa di quei precetti coranici che impongono, ad esempio, che non vi sia mai la pace con i non mussulmani e che la tregua, la Hudna, duri al massimo 10 anni: il tempo necessario a riarmarsi e distruggerli.
Il punto è che purtroppo milioni di persone condividono una visione dell’Islam creato per essere l’esercito di Allah, dove ogni singolo mussulmano è un soldato; ogni soldato morto per la diffusione dell’Islam è un shaheed (martire); dove la guerra tra l’Islam e il resto del mondo non islamico è eterna e non può arrestarsi perché essa è stata creata da Allah affinché l’Islam governi il mondo, come dev’essere a qualsiasi costo. Qui non è la vita ma la morte ad essere bellissima, perché conduce il buon muslim in Paradiso.
Si può definirle “visione del mondo”, “interpretazione radicale del Corano”, “ideologia” o “progettualità politica”, ma è chiaro che queste idee pongono chiunque creda in esse automaticamente al di fuori del consesso civile e democratico. Esse sono contrarie a qualsiasi principio di pacifica convivenza tra i popoli e la loro diffusone rappresenta un reato contro la pace, la libertà, la democrazia e qualsiasi diritto umano finora conquistato. Se non saranno fermate in tempo porteranno gli stessi risultati di tutti gli altri totalitarismi del secolo scorso.
Come dubitare che, nel momento in cui un gruppo radicale islamico disponesse di armi di distruzione di massa, atomici, chimici o biologici, le userebbe pur di perseguire i suoi reali obiettivi di conquista o distruzione? Quale sia il loro rispetto per i “civili”, ovvero per le vittime innocenti, ce lo hanno già dimostrato fin troppe volte.
Il punto cruciale della guerra terroristica è che non si riesce nemmeno a individuare una classe dirigente precisa con cui trattare o a cui imporre un “cessate il fuoco”. Eppure siamo di fronte ad una guerra e sappiamo che, in attesa di future leadership più pacifiche e tolleranti (se e quando ciò avverrà), bisogna sforzarsi di mantenere la potenza militare come deterrente, mentre la diplomazia continua a cercare di ottenere una pace vera, seria e duratura con quelle forze politiche e quegli Stati disposti sinceramente a farlo, preferibilmente nel più ampio quadro di una revisione globale dei rapporti tra democrazie e mondo islamico.
Considerando che ben 44 dei 51 conflitti attualmente in corso sul pianeta riguardano paesi, nazioni, eserciti e gruppi islamici (gli Stati islamici sono 70), forse la vera domanda è: «Fino a che punto Israele e il Sionismo possono decidere se avere uno Stato nei suoi confini storici o uno Stato in pace con i suoi vicini?»
Riformare l’ONU per salvare i diritti umani
Questa è dunque la sfida che abbiamo di fronte. In quest’ottica va attentamente considerata la recente proposta del Ministro Frattini — esposta durante il Convegno “Il sentiero della pace nel mondo passa per il Medio Oriente” (Roma, 8 marzo 2004) — di riprendere il progetto della NATO politica, idea peraltro già presente all’atto della sua stessa costituzione. La NATO politica è forse lo strumento di maggiore efficacia per coadiuvare l’operato delle Nazioni Unite che, per un paradosso della democrazia, sembrano arrivate ormai al capolinea, ostaggio del meccanismo della maggioranza automatica nelle mani di paesi autoritari e irrispettosi dei diritti umani.
Oggi no–global, antisionisti e antiamericani, riciclando la vecchia propaganda comunista, addebitano all’occidente capitalista e imperialista la povertà e l’ingiustizia sociale, indicate come le sole ragioni di quello che viene presentato all’opinione pubblica mondiale come un più generale conflitto tra ricchi e poveri, oppressori e oppressi, Occidente e Islam, Israele e Palestina.
In realtà, l’unica reale contrapposizione tra popoli e nazioni nasce dal drammatico processo di involuzione della democrazia e del rispetto dei diritti umani su scala globale, causato soprattutto dal terrorismo sostenuto da regimi corrotti e dittatoriali. Ovvero, da chi nega la centralità dell’uomo e della sfera dei diritti umani, nel tentativo di cancellare la verità inoppugnabile che vuole tutti gli esseri umani «liberi ed eguali in dignità e diritti».
È singolare il fatto che i principali denigratori della Democrazia, del Sionismo e del Progresso, siano proprio coloro i quali negano questi principi, ma non è un caso. Come dimostrano i dati dell’ONU, il progresso, quando è davvero per tutti, ovvero quando è determinato da un processo di crescita democratica, culturale ed economica largamente diffusa, si accompagna sempre ad una maggiore libertà; proprio quella diavoleria che spaventa, e molto, quei regimi che tale libertà negano ai popoli loro sottomessi.
Ma non ci può essere progresso laddove, come sostiene la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la violazione e il disprezzo dei diritti umani porta «ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità»; mai come oggi occorre dunque lavorare per «l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dalla paura e dal bisogno». Questa è ancora «la più alta aspirazione dell’uomo».
Anche a tale scopo furono create le Nazioni Unite, e anche questo obiettivo è stato mancato: a 56 anni dalla sua fondazione, l’ONU non è ancora riuscita a concretizzare lo scopo per cui era stata creata: garantire «la libertà, la giustizia e la pace nel mondo» mediante il rispetto dei diritti umani per ogni popolo e per ogni individuo.
Guardate quanti conflitti, quanti esseri umani ancora in catene, ovunque. Assistiamo inermi e impotenti a stragi efferate e a veri e propri genocidi come in Congo, Rwanda, Cambogia e Sudan, dove le autorità sono responsabili del massacro, in pochi anni, di oltre due milioni di cristiani “negri”; milioni di esseri umani sono tenuti in schiavitù in Pakistan, Niger, Emirati Arabi e Indonesia. Le violazioni dei diritti umani, le torture, gli arresti arbitrari, l’abuso dei minori, l’impiego dei bambini nelle guerre, le mutilazioni genitali femminili, la schiavitù sessuale e l’analfabetismo sono in costante aumento in troppi Stati del mondo, molti dei quali fanno assurdamente parte di fondamentali organismi di quell’ONU che è troppo occupata a condannare Israele per adottare seri provvedimenti sulle vere emergenze del mondo.
A 56 anni dalla sua Fondazione, l’ONU non è ancora riuscita nemmeno a definire una «concezione comune di questi diritti e libertà», un obiettivo che la Dichiarazione del 1948 giudicava «della massima importanza per la piena realizzazione di quegli impegni».
Neppure tra gli Stati membri dell’ONU siamo infatti riusciti ad ottenere il pieno ed effettivo rispetto dell’articolo 2 della Dichiarazione, che attribuisce ad ogni individuo «tutti i diritti e tutte le libertà» da essa enunciate «senza distinzione alcuna, per ragione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione». Anzi, sono state prodotte e accettate successive carte e dichiarazioni dei diritti umani che arrivano all’incredibile “traguardo” di riconoscere tutti i diritti umani compatibili con quelle tradizioni religiose, politiche e giuridiche come la sharī’a e le leggi di certe democrazie popolari: ovvero, pochi o nessun diritto, se non per una ristretta cerchia che non ne ha bisogno, perché gestisce il potere.
È in base a queste grandi conquiste dell’umana ipocrisia che la Commissione per i diritti umani, il principale organo delle Nazioni Unite responsabile per la protezione di tali diritti, è attualmente presieduta dalla Libia, degnamente sostenuta da altri Stati sospettati — chissà mai perché? — di violare quei diritti, come la Cina, o addirittura di sostenere il terrorismo, come Cuba, Sudan, Vietnam, Zimbabwe, Arabia Saudita e Siria.
La Siria, guidata da un regime corrotto e totalitario, è subentrata proprio agli Stati Uniti, i quali, oltre ad essere una federazione di Stati democratici, versano pure il 22% dell’intero sostentamento di questa assemblea votata a trasformare la massima istituzione mondiale in un teatro dell’assurdo.
Ma i diritti umani non sono una pièce teatrale. La Dichiarazione resta un punto di riferimento e costituisce uno dei rari esempi nella storia dell’uomo in cui il rispetto del principio e del diritto, più che la valutazione del potenziale bellico, hanno costituito parametri fondamentali per giudicare l’importanza degli Stati. Essa ha favorito, pur se unicamente all’interno delle società democratiche, l’emergere dell’individuo nell’ambito di uno spazio finora riservato esclusivamente agli Stati sovrani.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è importante perché ha un peso reale nella vita delle nazioni, dei popoli e degli individui, e costituisce oggi uno dei parametri fondamentali in base ai quali la comunità internazionale può delegittimare alcuni Stati. Lo Stato che calpesta i diritti umani non è considerato degno dell’approvazione della comunità mondiale, almeno in linea di principio.
Il fatto che l’unico Stato costantemente delegittimato dall’ONU sia Israele si spiega considerando che: primo, tutt’oggi alla società internazionale manca un criterio univoco, valevole per tutti, che consenta di approvare o di biasimare i suoi membri; secondo, questi criteri evanescenti sono gestiti da chi viola sistematicamente quei diritti che è assurdamente chiamato a difendere, in base al meccanismo della maggioranza automatica e alla connivenza di tanti che si atteggiano a unici difensori della civiltà e del diritto.
In un momento storico così drammatico forse siamo ancora in tempo per chiedere, e magari ottenere, che l’ONU e le altre istituzioni preposte all’attuazione dei diritti dell’uomo, onorino quell’impegno etico e morale che costituisce tuttora il principale obiettivo della loro attività e la legittimazione morale dei lauti stipendi elargiti a tanti diplomatici e rappresentanti.
La NATO politica potrebbe essere un passo fondamentale considerata l’urgenza di profonde riforme delle Nazioni Unite, mirate a restituire alla massima istituzione mondiale la credibilità necessaria a garantirle l’autorità morale (e non solo) che un tale organismo deve possedere per poter esercitare il proprio ruolo di arbitro dei conflitti tra popoli e Stati del mondo.
Ai principi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo va ispirata una stagione di programmi concreti per «la libertà, la giustizia e la pace nel mondo», mediante la diffusione della cultura, del benessere e dei diritti umani per ogni individuo, per ogni popolo.
Israele Luce per le Nazioni
Le organizzazioni come la Federazione Sionista possono fare molto per contribuire a portare il genere umano fuori da questo periodo di nuova oscurità e guerre, attingendo ad una cultura le cui radici universali sono quelle di un’umanità che è stata capace di attraversare i millenni e di arrivare qui, oggi, ad offrire il suo contributo al mondo e alle generazioni future.
In tal senso il Sionismo moderno può svolgere un ruolo certamente positivo per favorire l’incontro tra popoli, civiltà e realtà diverse, e può collaborare all’avvento di un mondo in cui la pace, la stabilità e la crescita economica possano concretizzarsi attraverso società organizzate attorno ai valori della democrazia, dei diritti umani e della cooperazione tra i popoli.
La mia proposta è dunque quella di realizzare (in Israele oppure ovunque lo si ritenga opportuno) un Meeting tra chiunque voglia contribuire a rilanciare la battaglia per i diritti umani e ridurre l’impatto del temibile gioco geopolitico che oppone, tanto nel Medio Oriente quanto nel resto del mondo, i cosiddetti “militanti” mussulmani alle democrazie reali. Sottrarre il mondo al regime energetico basato sui combustibili fossili non è soltanto un modo per ridurre le mortali emissioni di CO2 a un livello più sicuro per il pianeta e per la specie umana, o per invalidare il ricatto terroristico–petrolifero.
Progettare regimi energetici alternativi decentralizzati, come quello all’idrogeno o quello dell’energia solare, può accendere nell’uomo la speranza di redimere chi non lo è, e abilitare chi è privo di ogni potere. Aumentando il numero dei produttori di energia (come è già possibile fare anche grazie alle tecnologie israeliane) e con esso il livello della qualità della vita e il benessere dei cittadini, cresceranno autonomia e mobilità tanto a livello personale quanto istituzionale ed economica. La diminuzione del potere legato ai combustibili fossili porterà ad una nuova stagione politica ed economica in cui tutte le strade saranno aperte, compresa quella che porta alla pace, alla giustizia e alla libertà in Medio Oriente.
Essere luce per le Nazioni e contribuire alla salvezza e alla liberazione dei popoli oppressi, potrebbe essere il nuovo traguardo per il Sionismo contemporaneo.
Carmine Monaco