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 Il pallone di Dudu
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Roberto Mahlab
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Inserito - 24/10/2004 :  15:20:06  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab

La via verso il parco passa attraverso una strada dalle case basse in mattoncini colorati, i balconi con vasi di gerani e giardinetti di aiuole ordinate ed erba sempre ben rasata. Una delle case è in mattoncini rossi e c'è una ragione, anche la casa della guida del Chassidismo, il Lubavitch Rebbe di New York, è costruita con gli stessi materiali dello stesso colore.

Nel diciassettesimo secolo nell'Europa orientale e segnatamente in Russia e Polonia, i pogrom antiebraici si susseguivano con massacri delle comunità e roghi di testi sacri, il movimento dei chassidim, gli "uomini pii", riempì le anime degli ebrei, svuotate dall'assurdità di quell'esistenza di spregio della moralità e della spiritualità, i grandi maestri chassidici perorarono che nessuno dovesse rimanere da solo nella sofferenza e nello sconforto, l'unione con l'Eterno si permea non solo di preghiera, ma nelle azioni di ogni giorno e la Kabbalah, la mistica, sorse a nuova vita a fianco degli altri studi della Torah, la Bibbia. Il movimento chassidico si espanse nel mondo con attività di aiuto e di missione ai bisognosi, risorse dopo la Shoà, l'Olocausto e ancor oggi, dalla sede principale di New York, la casa dai mattoni rossi del Lubavitch Rebbe, gli insegnamenti raggiungono i cinque continenti.

L'altro pomeriggio, nella città d'Europa dove vivo, due bambini giocavano a pallone sul marciapiede di fronte alla casa dai mattoncini rossi, due giacchette per terra a definire la porta. Uno dei bimbi si concentrò, prese una lunga rincorsa e non ci fu nulla da fare per il portiere, il pallone volò oltre per diversi metri.
Uno dei bambini si volse e si mise a corrergli dietro, la lingua leggermente pendente dalle labbra, gli occhi piccoli piccoli che seguivano la traiettoria, era talmente intento che non si avvide di aver spostato una carrozzina, la mamma si alzò dalla panchina e si accertò che il neonato non si fosse svegliato e poi lanciò un sorriso dolce al bambino che continuava l'inseguimento del pallone.

Si avvicinava a me e pensai a che cosa fare, fermarlo e con un colpo di piede passarlo al bambino oppure lasciarlo proseguire per non togliergli il gusto dell'impresa. Molti anni prima ero io ad inseguire un pallone in quel quartiere, come quei bambini oggi organizzavo delle partite di calcio con i piccoli amici, ci spostavamo spesso al giardino vicino, c'erano le ringhiere che circondavano il terreno di gioco, utilizzavamo le due aperture pedonali come porte. Era un campo da calcio alla buona, c'era una grande fontana in mezzo e i rimbalzi del pallone sui suoi lati modificavano traiettorie e risultati.

Il mio amico Albi e io eravamo i capitani delle due squadre, alcune volte eravamo solo noi due, altre si aggregavano diversi bambini. Le partite iniziavano appena tornavamo da scuola e finivano al tramonto, quando tutti tornavamo a casa dalle famiglie. Giocavamo ogni giorno tranne il venerdì e il sabato, la famiglia di Albi era chassidica e i ragazzi rispettavano l'ingresso e l'uscita dello Shabbat, pregavano e studiavano la Torah in una piccola sinagoga ortodossa vicina ai giardinetti e anche io, visto che senza Albi non mi andava di organizzare partite, finivo per andare al sabato mattina al Tempio Maggiore, una lunga e gustosa passeggiata tra le vie della città ricche di negozi illuminati.

Un pomeriggio arrivò anche Dudu, suo fratello più piccolo. Mentre Albi era sempre disponibile a delle belle chiacchierate, Dudu era sempre serio, sotto la maglietta e i pantaloncini corti vestiva il Tallet, portava sul capo la Kippà e ai capelli le Peot, le basette arricciolate. Il Tallet è uno scialle con quattro angoli, otto fili, gli Tzitzit, e cinque nodi che spesso sbucano da sotto la camicia. Identifica la commistione tra il vestito e l'aria dell'universo e il suo significato è indicato da un calcolo cabbalistico del valore delle lettere che formano il termine, seicentotredici, il numero delle mitzvot, i precetti, lo stesso numero delle ossa del corpo umano.
Dudu era piccolo e magro, ma dava l'impressione di un antico rabbino. E giocava a calcio con noi con un impegno tale che le nostre partite divennero la curiosità del quartiere. Mi ricordo che sentivo un affetto particolare per Dudu, salutava tutti al venerdì pomeriggio, tornava a casa a studiare i libri sacri prima del fratello Albi. Non veniva sempre a giocare con noi ed era con una punta di delusione che chiedevo ad Albi la ragione e la risposta era sempre che il fratello aveva da studiare.

Anche quel pomeriggio Dudu non c'era e Albi e io eravamo riusciti a mettere insieme due squadre corpose, era una giornata fresca, eravamo diventati bravi, e c'era quel pallone nuovo, me lo avevano comprato i miei e ne ero orgoglioso, anche i nostri piedi lo trattavano con rispetto, i colpi erano i più soffici possibile, come si fa con le cose nuove. Al tramonto gli altri bambini tornarono a casa e Albi e io continuammo per un po' tra rigori e parate. Infine raccogliemmo il pallone e ci preparammo a dirci arrivederci, come al solito lo pregai di salutarmi Dudu, avevo nostalgia delle poche parole che scambiavamo, non riuscivo ad avere chiaro se la mia amicizia per lui era ricambiata.

Fu un attimo. Un ragazzino più grande di noi sbucò all'improvviso e ci caricò, ci staccò il pallone dalle mani e corse via diritto, non avemmo neppure il tempo di voltarci che era già lontano. Albi e io rimanemmo di sasso per alcuni minuti, la nostra mente impiegò tanto per comprendere una realtà inspiegabile, così lontana e diversa dal nostro mondo.

Dudu si materializzò improvvisamente, senza una parola, al nostro fianco, ci guardava interrogativamente. "Ci hanno preso il pallone". Non disse nulla e si avviò lungo la stradina che si snodava attorno ai giardinetti, lo seguimmo, senza chiedere e senza pensare. "Ecco, sono là, stanno giocando con il nostro pallone". Al centro dei giardini c'era uno spiazzo di sabbia, per i bambini che costruivano castelli e piste per le biglie, il ragazzo e il suo gruppo si scambiavano la palla là, travolgendo i giochi di sabbia e allontanando e spaventando i piccoli. Ci avvicinammo, sempre guidati da Dudu. "E' il mio pallone!", gridai al ragazzo che si stava articolando in una parata. Lui raccolse il pallone al petto e si volse verso di me, mi lanciò un sorriso canzonatorio, sprezzante e si rimise a giocare come se non esistessi più.

L'istante successivo Dudu si lanciò e atterrò sui fianchi del ragazzo che crollò sulla sabbia, gli strappò il pallone dalle mani e con calma tornò verso di me e Albi e me lo porse. Il sorriso sprezzante era scomparso dal volto del ragazzo steso a terra, si stringeva gli occhi, incredulo di che cosa gli era capitato. Gli altri ragazzi del suo gruppo rimanevano in piedi come paralizzati.

Camminammo insieme fino all'uscita dei giardini, avevo il cuore in tumulto, Albi non disse una parola, aveva da tempo accettato il più piccolo Dudu come un saggio fratello maggiore. Osservavo Dudu, il volto serio, la kippà che non si era mossa di un centimetro neppure durante la collutazione, le Peot ordinate, le frange del Tallet che si protendevano dalla camicia. Al momento di salutarci Albi disse che alla fine del prossimo Shabbat sarebbero partiti e che difficilmente nei giorni successivi avremmo potuto rivederci, dovevano preparare i bagagli, oltre a studiare, non chiesi dove andassero, sentivo la risposta dentro di me, salivano in Israele e avrebbero continuato gli studi in una Yeshivà, una scuola rabbinica. Per qualche giorno ancora andai ai giardinetti e mi mettevo a osservare l'angolo della via dove abitavano, speravo di rivederli mentre uscivano di casa, ma non avvenne e mi misi l'animo in pace, sentivo che stava avvenendo qualche cosa di giusto, per cui provare accettazione e neppure nostalgia.

Passarono gli anni e ci fu chi disse che i nostri genitori non avrebbero dovuto mandarci a studiare alla scuola ebraica, eravamo in una torre di cristallo, impreparati alle insidie della vita. Coloro che dicevano questo furono gli stessi che ci aggredirono, ci inseguirono gridando con parole diverse :"Israele deve essere distrutto". Ma noi non vivevamo in Israele, eppure ci inseguivano come se ci vivessimo. E fu la torre di cristallo che ci impedì di accettare il fatalismo.

Incontrai altre volte, sotto altre sembianze, il ragazzo che mi aveva sottratto il pallone e altre volte mi guardò sprezzante e beffardo.
E altri Dudu comparvero al nostro fianco, non sapevo da dove venissero, come si fossero avvicinati, ma c'erano e non chiesero mai, senza parole ci aprirono le porte e ci fecero parlare, non mi chiesero mai di unirmi alle preghiere, solo alle feste, ai giochi, non erano invadenti, il loro ruolo era conservare e tramandare la tradizione e viverla con gioia.

"Il suddetto ebreo", così mi apostrofarono di nuovo alcuni giorni fa altri di quei ragazzi che sottrassero il pallone, dopo anni che eravamo spariti reciprocamente dalle vite diverse, ogni volta che si rialzano dalla sabbia, ricominciano. Forse non finirà mai, forse solo quando tutti noi seguiremo il viaggio di Dudu.

Il bambino raggiunse il pallone da solo e, trafelato, ansante e soddisfatto, corse di nuovo verso i suoi compagni di gioco, certo si sarebbe offeso se chiunque avesse arrestato la corsa della sfera mentre egli era impegnato ad inseguirla e così i passanti osservarono solo che non si avvicinasse pericolosamente alla strada. Diedi un'ultima occhiata alla casa dai mattoncini rossi, continuai verso il parco e mi tornò in mente il mio amico.

Roberto Mahlab

La fotografia del Muro del Pianto a Gerusalemme è stata scattata dall'autore


   
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