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Kaylyn

Stampato da : Concerto di Sogni
URL Tema: https://www.concertodisogni.it/mpcom/link.asp?ID ARGOMENTO=10764
Stampato il: 22/12/2024

Tema:


Autore Tema: detective Hayes
Oggetto: Kaylyn
Inserito il: 13/02/2005 23:11:18
Messaggio:

Kaylyn

Prima parte

Era un periodo strano per Kaylyn, quello. Il suo lavoro non andava come avrebbe dovuto e suo marito Sean era sempre fuori per lavoro. Tornava ogni fine settimana ma poi ripartiva quasi subito. A volte non restavano insieme nemmeno ventiquattrore. Non avevano più un momento di intimità, non avevano un minuto per stare abbracciati l’uno vicino all’altro. Non litigavano, questo no. Si amavano come il primo giorno. Ma non era tutto come allora. Adesso lui non era molto presente nelle sue giornate.
"Lo sto facendo per noi." continuava a ripeterle, ogni volta che la sentiva avvilita al telefono. Già, lui lo stava facendo per loro. Ma quanto tempo le avrebbe rubato? Quanto tempo avrebbero perso così?
Ma la loro casa era lì, in quell’angolo dimenticato da Dio, in quell’angolo sperduto del Massachusetts. E Sean aveva ottenuto un lavoro presso un’importante banca di Washington, il suo sogno. Ma non quello di Kaylyn.
E adesso Kaylyn si ritrovava sempre più spesso sola, a guardarsi nello specchio e chiedersi che vita era la sua. Gli amici… beh, chiamiamoli amici… erano spariti. Nel momento del bisogno si erano volatilizzati quasi tutti. Ogni tanto riceveva qualche telefonata.
"Ehi, Kaylyn! È un secolo che non ti fai sentire..." gli dicevano. Già, era un secolo che non si faceva sentire... e loro? Si facevano mai vivi con lei? Solo quando avevano bisogno di qualcosa. Mi tieni i bambini? Vieni a fare shopping con me?... E lei sempre disponibile, anche quando non ne aveva voglia.
E passava il suo tempo a lavorare e pensare. Pensare e lavorare. Sempre la solita vita. Sempre da sola. In ufficio aveva legato con una collega, ma riuscivano a vedersi poco durante le ore di servizio. E dopo Kaylyn correva a casa, ad aspettare la telefonata di Sean.
Un giorno, una domenica, annoiata ed infreddolita, Kaylyn decise di accendere il computer di Sean. Non l’aveva mai fatto in sua assenza. Adorava vederlo in azione mentre le sue dita saettavano veloci tra i tasti. Ma adesso lui non era lì. Quel weekend non era riuscito a tornare, a causa della neve che aveva bloccato tutte le strade di accesso alla città. Era rimasto a Washington, dove lavorava sei giorni su sette. E non sarebbe tornato prima di una settimana, se tutto andava bene. E potevano essere anche due, le settimane. Questo pensiero le martellava la testa tanto da causarle una potente emicrania. Alla fine decise che doveva trovare una distrazione, o sarebbe impazzita nel giro di qualche ora.
Accese il computer e rimase a fissarlo immobile, come se Sean potesse arrivare da un momento all’altro ed infuriarsi con lei. Non l’aveva mai fatto, ma forse perché lei non aveva mai acceso il suo computer. Non successe nulla. Sean non arrivò. E lei si decise a prendere in mano il mouse. Si spostò tra le icone sparse a caso sul desktop cercando di intuirne un senso logico, che non trovò. Sean aveva un suo ordine. Un ordine che lei non era mai riuscita a comprendere.
Poi decise di fare un giretto in internet. Era un secolo che non andava surfando, come usava dire Sean, di sito in sito. Quella sera la telefonata di Sean arrivò più tardi del previsto. Ma Kaylyn non si era accorta dello scorrere del tempo. Non era stanca né affamata.
Tornò al computer di Sean anche il giorno dopo e quello successivo. Cominciava a piacerle la sensazione di avere tutto il mondo a portata di mano. Poteva persino sapere che tempo faceva a Washington in quel preciso istante. E quasi per caso si imbatté in uno strano sito. Era stato creato da un gruppo di amici, tutti psicologi di Los Angeles, e aveva lo scopo, ambizioso, di aiutare le persone che ne avessero avuto bisogno.
Kaylyn non aveva mai avuto modo di confrontarsi con uno psicologo, l’unico forse che avrebbe potuto spiegarle le crisi di panico che ogni tanto l’assalivano e che, spesso, si trasformavano in crisi di pianto. Ma quelle crisi erano passate quando aveva conosciuto Sean. E da allora aveva smesso di pensarci. Ma adesso, di nuovo sola, in una città che non era la sua, lontano da suo marito… e sempre più sola… cominciava a pensarci. Cominciava a ripensare a cosa era stata la sua giovinezza. A come aveva vissuto gli anni di università, in perenne lotta tra il suo desiderio di trasgredire e l’educazione familiare che gli imponeva certi protocolli. Sean, in un certo senso, era stata una trasgressione ai canoni di famiglia. E i suoi non l’avevano mai accettato e non l’avevano mai perdonata. Per questo era andata via, lontana dalla sua città, lontana dalla vista di parenti e amici per non sentirsi criticata e giudicata. Non se n’era mai pentita. Perché amava Sean, con tutto il suo cuore.
Cominciò a leggere gli sfoghi di gente comune che avevano tutti un problema in comune: la solitudine, un’irrimediabile solitudine. Lei era una di loro.
Nei giorni a seguire, ogni volta che tornava a casa, accedeva il computer e andava a leggere cosa scrivevano persone sparse in ogni angolo del mondo. C’erano storie di tutti i tipi. Tanto simili alla sua. Tanto diverse dalla sua. Nacque così il desiderio di confrontarsi. In alcuni casi sentiva il desiderio di confortare quelle persone, perché in fin dei conti lei aveva qualcuno che l’amava. Lei aveva Sean.
Si registrò nel sito e poco alla volta, timorosa di dire sciocchezze, iniziò a scrivere. A rispondere. A consigliare. Diceva sempre di non essere una psicologa. Ma diceva pure che una parola gentile, detta da chi non è nell’ambiente medico può far più bene di un’attenta diagnosi.
Un giorno trovò un messaggio sulla sua posta elettronica. Un certo Ethan l’aveva contattata. Con una certa apprensione, lesse quel messaggio. Per qualche motivo si aspettava che gli autori del sito la stessero invitando a non dispensare più consigli gratuiti e spesso inadeguati. Perché lei si sentiva così. Inadeguata a tutto.
E invece Ethan la ringraziava per il contributo umano che stava mettendo nelle pagine del sito. Un tocco di vitalità, l’aveva definito. La pregò di continuare.
Kaylyn si sentì pervadere da un senso di gioia. Finalmente qualcuno si era accorto che lei, in fin dei conti, non era una stupida commercialista di provincia. Lei aveva un cuore. Un cuore grande.
I mesi passarono. Passò l’inverno e arrivò la primavera. Le giornate si allungavano e le settimane correvano. Sean era sempre più impegnato nel suo lavoro e spesso capitava che non tornava a casa per due settimane di seguito. Ma lei cominciava a condividere le sue ambizioni. Adesso ne aveva una anche lei. Imparare. Imparare a capire gli altri. Riprese in mano i libri. Dopo una vita di studi economici, prese in mano un libro di psicologia. Lo divorò un pochi giorni. Poi passò ad un altro e a un altro ancora, mentre si infittiva la corrispondenza con Ethan.
Solo ad aprile inoltrato, Kaylyn scoprì che Ethan era uno dei soci del sito. E rimase stupefatta della sua infinita gentilezza verso quella piccola donna di provincia.
Arrivò l’estate e Sean cambiò lavoro. Ma rimase sempre a Washington. Ormai la vita di città gli piaceva e non gli andava di tornare in quella cittadina dimenticata da tutti. In quella cittadina dove non era nessuno. Adesso aveva un buon lavoro. E ogni volta che tornava a casa, ogni due o tre settimane portava un regalo a Kaylyn. Ma non le disse mai di venire via con lui. O forse provò qualche volta a farlo, ma lei non si sentiva ancora pronta per quel passo importante e decisivo.
Kaykyn continuò il suo lavoro di mediocre commercialista in una mediocre azienda di provincia. Ma iniziò a farlo con maggiore lena, forse perché sapeva che a casa ad attenderla c’era il computer, c’erano le email di Ethan. Già, Ethan. Sean non sapeva niente di lui, della sua esistenza. Di quel fitto scambio epistolare. Kaylyn non era mai riuscita a dirgli niente. Nemmeno che dispensava consigli su quel sito. Temeva di essere derisa, anche se Sean era stato l’unico uomo in vita sua a non averla mai ostacolata.
I primi freddi arrivarono con largo anticipo, alla fine di settembre, cogliendo tutti impreparati. Sean si beccò un forte raffreddore che lo costrinse a letto per diversi giorni. Ma non tornò a casa. Rimase a Washington. Non ce la faceva a tornare, diceva. Non se la sentiva di affrontare quel lungo viaggio in macchina. Rimase a Washington da solo. E una sera, una drammatica sera, Kaylyn percepì qualcosa di strano nella voce di Sean.
"Che hai, amore mio?" gli chiese. Ma lui non diede una risposta esauriente.
"Niente. Sto bene. Solo un abbassamento di voce."
La telefonata fu insolitamente breve, avvolgendo Kaylyn in una sorta di incertezza. Perché Sean si comportava a quel modo? Perché era diventato così freddo negli ultimi tempi? Forse si aspettava qualcosa da lei, qualcosa che lei non aveva intuito? Ma cosa?
Decise di accendere il computer e girare questi suoi dubbi sul sito.
I giorni passarono. E passarono tre settimane senza che Sean tornasse a casa. Diceva che faceva freddo e che la macchina cominciava a patire le ondate di gelo che attanagliavano Washington durante la notte. Spesso, diceva, doveva muoversi in metropolitana, perchè a causa del freddo intenso le strade erano bloccate.
"Come qui nel Massachusetts." osservò Kaylyn.
"Esattamente." sorrise lui.
Ma lei non sapeva. Non poteva sapere.


Un sorriso, Titty

Edited by - detective Hayes on 13/02/2005 23:25:00

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Topic author: detective Hayes
Replied on: 13/02/2005 23:23:47
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Seconda parte

Il Natale si avvicinava e lei sentiva sempre più la solitudine. Se ne stava sola in casa, davanti al quel monitor che le regalava qualche emozione ma che non era in grado di darle ciò di cui aveva più bisogno. Un caloroso abbraccio. Un po’ di affetto.
Una sera, lasciando l’ufficio, vide a distanza uno sconosciuto che pareva attendere qualcuno che uscisse dall’edificio. L’uomo reggeva in mano un bouquet di rose. Poi lo vide avvicinarsi a una sua collega e parlare con lei. Kaylyn volse altrove la propria attenzione, come se continuare a fissarli poteva in qualche modo violare quella loro apparente intimità nella folla della strada. Si voltò alla ricerca di un volto noto. Cercava la collega con la quale faceva un po’ di strada assieme.
"Kaylyn?" si sentì chiamare. Era di un uomo, quella voce. Era stato un uomo a chiamarla per nome. Si voltò di scatto. Ed era lì, davanti a lei. Lo sconosciuto col bouquet di rose.
Non disse nulla, non riuscì a parlare. Era paralizzata dal terrore. Non conosceva quel tipo. Non aveva idea di chi fosse, né cosa volesse da lei. Né tanto meno come poteva sapere il suo nome.
"Chi... chi è lei?" balbettò alla fine, chiudendosi a riccio nel suo cappotto color cammello.
"Non mi riconosci?" disse lui. Ma non poteva conoscerlo. Non l’aveva mai visto. "La mia voce? Non riconosci la mia voce?"
Quella sì, le era familiare. Ma non riusciva a ricordare dove l’avesse sentita.
"Sono Ethan." esclamò lui, mentre sul viso si allargava un sorriso. Un dolcissimo sorriso.
"Ethan?" farfugliò. Non poteva essere. Non poteva essere lui. Come l’aveva trovata? Come aveva scoperto dove lavorava?
"Sorpresa, eh?"
"Come... come mi hai trovata?"
Ethan sorrise. Avevano parlato qualche volta al telefono. E avevano parlato di loro. Della loro vita. Poche cose. Ma sufficienti a mettere in moto quella strana macchina. Ethan sapeva dove viveva Kaylyn. Sapeva che tipo di lavoro faceva. Trovare dove lavorava era un gioco da ragazzi in una piccola cittadina di provincia come quella. Poche conoscenze informatiche e una buona dose di fortuna e il gioco era fatto. Eccolo lì, in carne, ossa e fiori.
"Questi sono per te." disse porgendole il bouquet. Lo fece con dolcezza. Con una gentilezza tale da tagliarle il fiato in quella gelida sera.
"Perché?" continuò confusa. "Perché hai fatto tutta questa strada..."
"Per te. Per conoscerti." sorrise, "Volevo farti una sorpresa."
E c’era riuscito. Altrochè se c’era riuscito. Kaylyn era stordita. Non se l’aspettava una sorpresa così... così bella. Ethan era lì, ed era decisamente più affascinate di quanto se lo immaginasse. Ma poi, d’improvviso, quella magia svanì. Il cellulare di Kaylyn iniziò a squillare nella borsa. Lo tirò fuori e, ancora prima di rispondere, capì che era Sean.
"Scusami... mio marito." disse allontanandosi di qualche passo. Ethan non disse nulla. Lui sapeva di Sean. Sapeva tutto.
La telefonata fu breve. Dannatamente breve. Sean era ancora in ufficio, nonostante l’ora e si apprestava ad iniziare una riunione d’affari. E voleva avvertirla che quella sera non l’avrebbe potuta chiamare allo solita ora. Ma ormai non lo faceva più. Gli orari delle sue telefonate erano sempre più variabili.
Tornò da Ethan, con lo sguardo di chi ancora non crede a qualcosa. Ma lui era lì. Era vero.
"Posso abbracciarti?" le chiese, cogliendola di sorpresa.
"Ecco... io..." balbettò.
"Se è un problema per te, non fa nulla."
La sua espressione era serena. Rilassata e felice. Felice di averla potuta vedere. Averla incontrata.
Fu una strana serata. Kaylyn cenò con Ethan in un ristorante fuori città. Non voleva che qualcuno la vedesse in compagnia di un uomo che non era Sean. Rimasero a parlare seduti al loro tavolo, senza che nessuno li disturbasse. Senza mai accennare a ciò che stava lei passando in quel periodo, agli sfoghi che aveva pubblicato solo poche settimane prima. Non parlarono di lavoro. Né del sito. Solo di loro stessi, dei loro desideri, dei loro sogni.
Quando rientrò si sentiva felice. Leggera e col cuore gonfio di gioia. Ethan le aveva regalato ciò di cui aveva più bisogno. Un abbraccio. L’abbraccio di un amico sincero.
Quel Natale fu gelido. Incredibilmente gelido. E non dal punto di vista meteorologico. Si trattava di Sean. Era cambiato. Da quando era andato a lavorare a Washington era totalmente cambiato e i suoi regali sembravano così falsi. Così incredibilmente ipocriti.
Kaylyn si ritrovò più volte a piangere chiusa in bagno. E passava le notti insonni, mentre Sean continuava ad ignorarla. Avrebbe voluto parlare con Ethan. Ma non poteva. Sean non sapeva niente di lui. Non sapeva niente del sito che frequentava. Ormai Sean non sapeva più niente di sua moglie.
Sean tornò a Washington con qualche giorno di anticipo. Disse che il suo capo l’aveva contattato per un’emergenza. Ma nessuno aveva chiamato a casa. Non l’aveva sentito parlare al telefono. Forse al cellulare? Poteva essere.
I giorni passarono più serenamente. Con Sean lontano, Kaylyn era libera di scrivere e parlare con Ethan.Ormai non le pesava più quel distacco. Anzi, si ritrovava sempre più spesso a sperare che un inconveniente di lavoro lo bloccasse a Washington e gli impedisse di tornare a casa per il weekend. Era nel fine settimana che Ethan riusciva a dedicarle più tempo, quando anche lui era libero dagli impegni di lavoro. Ma tutto poteva aspettarsi, Kaylyn. Tutto. Ma non quello che scoprì una domenica di metà gennaio.


Un sorriso, Titty

Edited by - detective Hayes on 13/02/2005 23:26:54


Topic author: detective Hayes
Replied on: 13/02/2005 23:28:09
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Terza parte

Sean non si era fatto sentire per l’intera giornata. Kaylyn aveva provato a chiamarlo un paio di volte ma il suo cellulare risultava sempre irraggiungibile. Nell’appartamento che si era affittato con c’era il telefono. Rimase ad aspettare che il suo cellulare squillasse per l’intero pomeriggio. Ma fu un’attesa inutile. Sean non chiamò quel pomeriggio. Solo in tarda serata, Kaylyn riuscì a prendere la linea. Il telefono squillò parecchie volte, prima che qualcuno rispondesse.
"Sean?" balbettò Kaylyn. La chiamata fu interrotta. Premette sul tasto di ripetizione e dopo due squilli la voce di Sean riempì il vuoto che cominciava a sentire nel cuore.
"Cos’è successo?" chiese lei.
"A cosa ti riferisci?"
"Poco fa... ho chiamato. Ma non so chi mi ha risposto..."
"Qui non ha squillato." la interruppe Sean, "Sicura di aver fatto il numero giusto?"
Altrochè se ne era sicura. Si era limitata a pigiare sul pulsante per rifare l’ultimo numero. Era lo stesso numero. Quello di Sean.
"Sì, certo..." disse lei, "Lo sai che è memorizzato..."
"Oh, beh... chissà che hai combinato con quell’affare." ironizzò lui. Non le aveva mai parlato in quei termini. Cosa gli stava succedendo? Non ebbe il tempo di dire nulla, quando udì un risolino soffocato.
"Cos’era quello?" si allarmò. Sembrava... no... non poteva essere...
"Cosa?"
"Una risata." disse lei e poi istanti dopo la risentì, "Eccola di nuovo, non l’hai sentita?"
"Non ho sentito niente." affermò con tono scocciato, "Te lo sarai sognato."
Kaylyn spalancò gli occhi in un’espressione di terrore.
"Sean..." balbettò piano, mentre gli occhi iniziavano a riempirsi di lacrime. Cosa gli stava succedendo? Perché era così freddo. Così distaccato. Così... così crudele. Non era il suo Sean, quello. Non lo era più.
Lui non le concesse molto altro tempo e interruppe bruscamente quella conversazione. Col ricevitore in mano e il segnale di linea a rimbombare nel silenzio della stanza, Kaylyn rimase immobile per chissà quanti minuti, finché non si decise a comporre il numero di Ethan. Aveva bisogno di parlare. Aveva bisogno di parlare con lui. Pochi squilli e attaccò la segreteria telefonica. La sua voce calda riempì la sua mente, mentre le lacrime scendevano bollenti lungo le guance.
"Ethan... sono io..." singhiozzò, "Richiamami, ti prego."
Aspettò e continuò ad aspettare. Un’ora e poi un’altra. E un’altra ancora. Ed Ethan non chiamò. Ma lei aveva ancora un dannato bisogno di parlare con qualcuno. Sfogarsi.
Accese il computer e volò al sito. Pochi secondi e la schermata dai tenui colori pastello si aprì davanti a lei. Inserì il suo nome utente e password e... strano! Non la riconosceva. Un’anonima finestrella compariva in primo piano annunciandole che il nome utente o la password erano errate. Provò di nuovo. Niente da fare. Chiuse la finestra e ricominciò tutto da capo. Stessa storia. Provò altre tre o quattro volte prima di arrendersi a un pianto disperato. Si sentiva sola. Abbandonata da tutti. Controllò se erano arrivate e-mail, ma nessuno le aveva scritto. Nessuno l’aveva cercata quel giorno.
Riprese in mano il cellulare e richiamò Sean. Il telefono squillò a lungo ma lui non rispose. Kaylyn sentiva un senso di disperazione avvinghiarle lo stomaco e la testa. Si sentiva strana, come se tutta la stanza stesse girando intorno a lei. Si lasciò andare sul divano nel freddo del suo salotto e compose di nuovo il numero del marito. E un’affilatissima lama le attraversò il cuore non appena sentì una voce dall’altra parte del filo. Non la voce di Sean. La voce di una donna!!!
"Spegni quell’affare..." sentì. Era Sean.
"Ci sto provando... ci sto provando..." disse la donna.
"Sean..." pianse Kaylyn. Era in compagnia di una donna... era in compagnia di una donna...
Non riusciva a pensare ad altro. Suo marito lì, con quell’altra. E lei? Sola. Sola in quella casa vuota di quella piccola cittadina di provincia.
Le lacrime scendevano a fiotti, senza che riuscisse a fermarle. Il cuore le batteva all’impazzata. Senza che riuscisse a calmarsi. Si sentiva soffocare. Si sentiva svenire. Le mancava il respiro. Le mancavano le forze.
Rimase lì fino al mattino successivo. I raggi di sole che penetravano dalle persiane sembravano volerle dire di sorridere, che un altro giorno era iniziato. Ma Kaylyn aveva solo voglia di piangere. Piangere e morire.
Chiamò in ufficio, dicendo di non sentirsi molto bene. Non ebbe bisogno di mentire. Non si sentiva bene davvero. Guardò il ricevitore del telefono e il suo pensiero volò a Sean. Ma non ebbe la forza di chiamarlo. Non ci riuscì.
Provò a mettere su carta ciò che stava provando. Dicevano così Ethan e i suoi soci, nel sito. Scrivere aiuta a liberare la mente. E a mente libera si ragiona meglio. Ma aveva un blocco. Qualcosa che ostacolava i suoi pensieri di venir fuori. Provò a cercare aiuto in uno degli psicologi che si alternavano on line ma al suo ingresso comparve ancora quel messaggio. Password sconosciuta. Scrisse una brevissima email al fondatore del sito. Nel giro di qualche ora ricevette un’altra coltellata alla schiena. Si scusavano per l’inconveniente ma erano stati costretti ad annullare la sua iscrizione in quanto non appartenente all’ordine degli psicologi. In altre parole lei non poteva scrivere perché non era un medico. Mentre leggeva le lacrime tornarono a farsi sentire e a nulla valsero i suoi sforzi per trattenerle.
L’avevano abbandonata tutti. Non aveva più nessuno. Non aveva più niente. In meno di ventiquattrore la sua vita era andata completamente in frantumi. Provò per l’ultima volta a chiamare Ethan ma rispose ancora la sua segreteria telefonica.
"È finita." singhiozzò, "La mia vita è finita… Sean ha un’altra... e mi hanno vietato si continuare a scrivere sul sito... perché? Che ho fatto per meritarmi tutto questo..."
Continuava a piangere e piangere, senza che riuscisse a fermarsi. Le sue parole si facevano sempre più confuse. Nemmeno lei riusciva più a capire cosa stesse dicendo. Poi d’improvviso, un lampo di lucidità. Era meglio farla finita. Almeno non avrebbe sofferto più, almeno non avrebbe più sentito il cuore batterle così forte da farle male.
Si diresse verso la cucina e sistemò degli stracci sulla porta, in modo da sigillare ogni spiffero. Poi aprì il gas e si sedette in attesa della fine.

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Ethan era appena sceso dal treno quando pensò di controllare se c’erano messaggi sulla sua segreteria telefonica. Le solite cose. Ricordarsi di quell’appuntamento, di quell’altro impegno. La partita a golf, la macchina dal meccanico. Non gli ascoltò nemmeno tutti. Sapeva già cos’erano. Le solite cose. Ma per il momento non gliene importava nulla. Adesso era nel Massachusetts. Troppo lontano per pensare a tutti quei dannatissimi impegni. Prese un taxi, indicandogli l’indirizzo preciso dove voleva essere portato. Non un albergo. Non un ristorante, nonostante fosse già ora di pranzo. Nulla di tutto ciò.
Quando arrivò a destinazione pagò il tassista e si avviò verso l’ingresso della piccola villetta in mattoni rossi, circondata da un giardinetto poco curato. Era a pochi passi dalla porta quando un odore pungente lo assalì. Non ci mise troppo a capire l’origine di quell’odore.
"Oh, Dio! No!!!"
Corse sul retro, come se conoscesse quella casa da sempre. E invece era al prima volta che la vedeva. Ma conosceva chi ci viveva. Ed era come se la conoscesse da sempre.
"Kaylyn!!!" strillò. Raggiunse la porta sul retro. Era chiusa dall’interno. Avvicinò il viso al vetro, portando le mani alle tempie per proteggersi dal riflesso del sole. Quel magnifico sole che voleva comunicare a Kaylyn che quel giorno sarebbe stata una bella giornata e al quale lei non aveva rivolto nessuna attenzione. Era buio nel suo cuore. E adesso anche nei suoi occhi.
Ethan la vide. Era riversa sul tavolo. Abbandonata ai vapori del gas.
"Kaylyn... Kaylyn..." urlò battendo sul vetro nella speranza che si svegliasse. Ma lei non si mosse. In preda all’angoscia Ethan afferrò un vaso e lo lanciò contro il vetro che andò in frantumi. Infilò la mano tra le schegge taglienti e fece scattare la serratura. Corse da Kaylyn, ormai priva di sensi. La prese in braccio e la portò fuori, stendendola sull’erba ancora bagnata di brina. Tentò di farla riprendere. Ma lei non respirava più.
"Noooo... ti prego Kaylyn. Non puoi farmi questo..."
Anche il suo cuore si era fermato. Non sentiva più il suo battito.
"Ti prego, Kaylyn... come farò senza di te.." pianse, mentre disperatamente le praticava un massaggio cardiaco.
"Non puoi farmi questo..." continuava a ripetere, pervaso da un sensazione di profonda costernazione, "Io ti amo..."
Passarono i minuti... lunghissimi minuti, nei quali Ethan non si arrese, non voleva arrendersi. Continuava a farle il massaggio cardiaco, sempre più vigoroso, premendo sul suo petto ritmicamente e pregando Dio di non lasciarla morire.

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Kaylyn vide una forte luce. Tutt’intorno un senso di pace. Si sentiva leggera. Si sentiva libera. Si avviò verso quel chiarore, finché una voce non la fermò.
"Dove vai, Kaylyn?" disse la voce, "Non è ancora ora di andare. Hai ancora tanto da fare. Hai ancora una vita davanti a te."
"Non ho più niente. Sono sola."
"No, non sei sola. Qualcuno ti ama..."
"Chi?" chiese lei, ma la voce non rispose.

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Quando Kaylyn aprì gli occhi vide solo una gran luce intorno a sé. Ma non sentiva più quel senso di pace. Non si sentiva più leggera. Tutt’altro. Sentiva le gambe intorpidite. E qualcosa che le pesava sul braccio destro. A fatica riuscì a girarsi. Sentiva la testa pulsare.
"Ethan..." bisbigliò.
Sentendosi chiamare, Ethan sollevò la testa e la vide. Kaylyn era sveglia e lo stava guardando. Sorrise.
"Che paura mi hai fatto prendere." disse accarezzandole i capelli e sistemandole una ciocca dietro l’orecchio.
"Ho sentito una voce." sussurrò, "Diceva che non era ora di andare..."
Ethan annuì.
"È vero. Hai ancora tante cose da fare qui."
Scosse la testa, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Non riuscì a trattenerle.
"Cosa? Sono sola..."
"Non sei sola... non lo sarai mai più." disse lui mentre seguiva dolcemente il profilo delle sue guance e le asciugava le lacrime. "Mai più."
Si sollevò avvicinando il proprio viso a quello di Kaylyn, finché le sue labbra non sfiorarono quelle della ragazza. La baciò. Dolcemente, mentre le lacrime continuavano ad sgorgare. Ma erano dolci lacrime di gioia.


Un sorriso, Titty


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