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Tommy è sparito

Stampato da : Concerto di Sogni
URL Tema: https://www.concertodisogni.it/mpcom/link.asp?ID ARGOMENTO=11915
Stampato il: 22/12/2024

Tema:


Autore Tema: July
Oggetto: Tommy è sparito
Inserito il: 21/06/2005 15:53:32
Messaggio:

Tommy è sparito

Tommy aprì gli occhi, e la prima cosa che vide fu la sagoma dell’abat-jour sul comò, immersa nella tenue luce gialla che dal lampione dirimpetto si dipartiva e penetrava attraverso la finestra aperta. Era piena estate, e la mamma aveva lasciato anche l’avvolgibile sollevata, affinché l’aria fresca della sera mitigasse il caldo soffocante della casa.
Dopotutto, non potevano permettersi l’aria condizionata, coi sacrifici che gia facevano per sbarcare il lunario. La camera di Tommy, poi, era la più calda in assoluto, in quella casa. E questo a Tommy piaceva; soprattutto, gli piaceva d’inverno, quando poteva permettersi di star chiuso nel suo piccolo angolo di tepore, nel quale papà gli aveva permesso di tenere il computer nonostante le proteste della mamma. Poteva stare inginocchiato sulla sedia, davanti allo schermo, senza sentire il freddo della stagione più gelida, mentre in cucina il fuoco scoppiettava, frizzante, dentro il caminetto di marmo.
Poteva giocare coi tasti e con le icone sul desktop, ignaro di tutto e di tutti, come se al mondo esistessero, in quegli istanti incantati, solo lui, e la meravigliosa scatola colorata attraverso la quale Tommy si affacciava alla vita…in quegli attimi, sembrava quasi che le persone e le cose perdessero la propria, tradizionale, consistenza, e ne acquistassero un’ altra dall’aspetto improbabile.
Non esistevano più i telegiornali, nè le brutte notizie, quando Tommy era seduto dinnanzi al computer. Non esistevano le lamentele di mamma, e le mancanze di papà. Non esistevano più le loro pesanti, insostenibili liti…
Dalla camera dei genitori provenivano voci indistinte, certamente le loro; solo, non si capiva bene cosa dicessero.
Tommy sapeva che litigavano. Lo facevano sempre.
Il suo corpicino minuto quasi si appiattì, sotto le lenzuola, come se la consapevolezza bastasse a farlo diventare magicamente piccino piccino, fino a scomparire.
Certo, aveva solo sei anni, dunque non erano molti. Ed erano certamente pochi per sapere quale fosse il significato della parola “divorzio”.
A dire il vero non lo sapeva bene, ma sapeva che era una brutta cosa. Anzi…una cosa orribile.
Non si poteva vedere, non si poteva toccare, eppure lui la percepiva.
La immaginava come una sorta di nube nera che aleggiava, gonfia di tempeste, sul soffitto della cucina, in quei giorni in cui sentiva che qualcosa non andava.
La sentiva che intrideva il tono della voce di mamma, quando rimproverava papà di bere troppo; non solo ne intrideva la voce, ma si rifletteva nei suoi occhi sbarrati, nelle sere in cui, seduta accanto al camino, fingeva di guardare la televisione fino a notte tarda.
Tommy la osservava, mentre il suo sguardo si spostava dallo schermo all’orologio di legno sulla credenza, e nel suo cuore sapeva cosa stava pensando.
Stava pensando a quello.
La brutta cosa. Anzi, la cosa orribile.
Non sapeva perché, ma vi era qualcosa, in lui, che gli suggeriva che in qualche modo la colpa era sua. Non è che pensasse di essere proprio la causa scatenante; ma era come se tutti i loro litigi, i loro silenzi, le loro rabbie, fossero frammenti di un mosaico tenuti assieme da un filo invisibile. E questo filo si attorcigliava, rimaneva impigliato negli anfratti che il tempo scavava negli animi; si annodava, si rivoltava…tutto questo assurdo tragitto per tornare, infine, a lui.
Sempre e comunque.
Adesso, ad esempio, stavano pronunciando il suo nome: Tommy aveva le antenne in questi casi. Silenziosamente sgattaiolò fuori dal letto e corse fino alla porta della loro camera, muovendosi con passettini felpati, simile al cucciolo di una pantera. Protese l’orecchio per carpire qualche briciola della loro conversazione, ma non appena avvenne il contatto col legno ruvido della porta, egli si ritrasse.
Sapeva che non era una bella cosa origliare: la mamma gliel’aveva detto tante volte. Istintivamente, fece il moto di allontanarsi per ritornare nella sua camera; in quel momento, però, senza che lo volesse, un’ignobile, clandestina frase lo raggiunse.
Raggiunse lui, che era innocente, e penetrò come la lama di un coltello nel suo cuore forse non troppo giocondo di bambino.
“Io te l’avevo detto che non era il caso che ci sposassimo. Le cose non sono mai andate bene tra di noi.”
La voce della mamma era carica di dolore.
“E cosa avrei dovuto fare? Lasciare che la gente dicesse che non mi facevo carico di mio figlio? Sei tu che l’hai voluto tenere!”
Papà non aveva la voce che Tommy definiva “appiccicosa”. Quella voce impastata che – lo sapeva bene, anche se non era mai stato verbalizzato – la mamma odiava. La odiava perché era l’alcool a renderla così, ad invischiarla nella propria rete maledetta.
No, questa volta non era così, e ciò sarebbe dovuto essere positivo. Ma vi era comunque una nota, un qualcosa a metà tra il serio e l’amaro, che rendeva le frasi di papà pesanti e dure come un macigno.
“L’ho voluto tenere perché lo volevo, Jhon. Lo volevo e non volevo rinunciare a lui. Tu avresti potuto riconoscerlo e venirlo a trovare quando volevi.”
Era di lui che parlavano?
Il cuore di Tommy cominciò a martellare come un tamburo, mentre nei suoi occhi affiorava qualcosa di umido e caldo.
Cosa significava “l’ho voluto tenere?” C’era forse l’eventualità che dei genitori vendessero il proprio figlio al mercatino delle pulci o lo regalassero ad un’asta per beneficenza? E quest’infelice opportunità, era stata forse contemplata quando la cicogna si era messa in volo per portare Tommy Randall a destinazione?
Una leggera ironia rivestì le parole di Jhon.
“Oh, certo, così mi sarei guadagnato anche la fama di sciupafemmine oltre che di ubriacone!”
“Quella di ubriacone te la sei voluta tu!”
Tommy si allontanò, senza nemmeno curarsi di poter fare rumore.
Sentiva il calore delle lacrime che gli attraversavano il viso e capitolavano sulle labbra, facendogli assaporare il loro gusto salato.
Ora sapeva.
Non aveva capito del tutto cosa fosse successo, ma sapeva che la causa di tutto era lui. Se i suoi genitori bisticciavano, la causa era lui.
Se sua madre era triste, o piangeva, o, ancora peggio, non piangeva, la causa era lui.
Se sua padre tornava a casa barcollando, avvolto dall’odore dell’alcool e del fumo di sigaretta, ancora una volta la causa era lui.
Se vedeva – perché a volte, quasi la vedeva – la nube scura della brutta cosa incombere come una spada di Damocle sui loro capi – Tommy emise un gemito al solo pensiero, ma per fortuna non venne udito – la colpa era solo, unicamente sua.
Era colpa sua se esisteva, e questo procurava solo angoscia e sofferenza per i suoi.
E se me ne andassi?
Per un attimo Tommy avvertì un dolce sollievo mitigare il peso delle frasi che aveva appena origliato.
Se me ne andassi forse la smetterebbero di litigare.
Fu l’unica certezza che potesse acquisire un colore diverso, in quel mondo che era solo dipinto di nero, o, tutt’al più, di grigio.
Si, perché oramai Tommy si alzava, al mattino, sentendosi penetrare dalla paura, appiccicosa e nauseante, di leggere nello sguardo di mamma i sentimenti troppo noti per non essere temuti. E quando percepiva le occhiate fulminee che mamma e papà si scambiavano – altra forma in cui la minaccia della brutta cosa si materializzava – aveva paura persino di respirare. Stava lì, al suo posto, col fiato sospeso, a soppesare ogni parola o gesto. Quasi come se il fatto di allungare la mano in direzione di papà per prendere l’insalata potesse fungere il ruolo di gesto decisivo, prodromo della sentenza estrema che avrebbe portato la famiglia a spezzarsi in due.
Non era così, forse, ma queste mille sfaccettature erano racchiuse nell’entroterra del suo piccolo cuore, a fare oramai corpo unico con le pareti e i pavimenti. Erano le miriadi di pensieri, dolori e incertezze, che popolavano l’universo di Tommy; un universo che sapeva di amaro, ma che era l’unico, purtroppo, di cui il piccolo disponesse.
Si, farò così.
Rapidamente, gli occhietti verdi di Tommy si mossero dal lenzuolo blu con le stampe verde chiaro – orsetti panda, solo che al buio non si potevano vedere! – alla finestra, spalancata verso il cielo tetro rischiarato dal lampione, ed allora si accorse che aveva deciso.
Era l’unica via d’uscita.
Era la finestra della felicità perduta, e se fosse uscito da lì, la felicità sarebbe tornata.
Per loro, certo, ma in quel momento non c’era altro. Non c’era altra via per lui, se non quella.
Pensò questo, e si attaccò ai bordi del lenzuolo, tirandoli con forza.

La porta del locale si aprì, facendo sì che il cono di luce si diffondesse sull’asfalto, e le ombre di due giovani si proiettarono sullo sfondo dorato, lunghe e sottili come zampe di un ragno enorme.
David e Gordon erano i nomi dei due ragazzi. Entrambi studenti ed entrambi avvinazzati.
David teneva per il collo una bottiglia di Long Jhon vuota a metà, e assieme al suo compagno di bevute si dedicava ad una notturna esibizione canora di Don’t Cray.
Avevano passato il sabato pomeriggio all’insegna del cazzeggio, e l’avevano finita giocando a carte e scolando birra e wiskye – un bicchiere via l’altro – in un locale di periferia; lo sfondo di tutto ciò, la ciliegina sulla torta, era stata la musica dei Guns’n Roses, dolce memoria dei tempi del liceo, che adesso come adesso avvolgeva i loro cervelli compenetrandoli tutti.
Non riuscivano a liberarsi da quelle note, da quelle parole strascicate.
Non riuscivano a liberarsi dalla voglia di ridere.
Entrambi, vedevano i pali e i confini della strada sdoppiarsi dinnanzi a loro, ma questo non dava fastidio. Tutt’altro: ridevano come due ragazzini moriatrici.
Quella che in termini neurologici si chiama moria.
Ridere per niente.
Camminavano barcollando ed erano felici.
Ridevano e continuavano ad essere felici.
Stonavano, alla luce della luna pallida, ed erano immensamente felici.
Si avvicinarono alla macchina, e Gordon aprì lo sportello del guidatore. Lo sguardo ebbro di David si adombrò per un attimo.“Vuoi…guidaree?” domandò all’amico.
“Si. Perché?” Domandò Gordon.
“Ma…siamo ubriachi…”
Si guardarono per un attimo. Scoppiarono a ridere, ed il dubbio di David si dipanò così. Gordon accese il motore. La vettura si riempì dell’odore dell’wiskye e del sudore, miscela nauseante che in quei momenti non li infastidiva affatto.
Continuavano a ridere senza un perché. La macchina sobbalzava, e intanto le note di Don’t Cray si spargevano nell’aria come figure scombinate sopra un pentagramma immaginario. E si intrecciavano con le risate, e col rumore del motore, e con l’odore della notte che lasciavano ampiamente entrare dai finestrini abbassati…
E in mezzo a questa baraonda erano felici….
Il mondo allentava i propri limiti, la vita diventava un insieme di segni tracciati coi gessetti colorati sopra una lavagna nera, una vecchia lavagna nera di quelle che si appoggiano al muro, e che portano sulle fessure della cornice in legno la polvere e l’odore di stantio accumulatosi negli anni…

“Peter….dov’è Tommy?” La voce di Wilma Randall si levò, angosciata, simile all’urlo di un animale ferito.
Peter accorse in camera di Tommy, e vide sua moglie, ferma sull’uscio, con un’espressione disperata disegnata chiaramente in volto. “Mi ero alzata per andare in bagno, e nel buio…mi è sembrato di scorgere una figura strana…ho chiamato il bambino e non rispondeva. Così ho acceso la luce…”
Con una rapida occhiata Peter afferrò l’immagine del lenzuolo bianco che affiorava dalla sponda del letto di fronte alla finestra, e capì che doveva certamente esser stato legato alla rete in acciaio. Sotto il davanzale, un nodo doppio, o forse triplo, stretto con vigore, teneva il lenzuolo bianco legato a quello blu coi panda verdi. La finestra era aperta, completamente aperta. Sulla rete metallica il materasso era nudo, mancava anche il cuscino.
Lo sguardo di Peter cambiò un attimo direzione, e vide che le ante dell’armadio erano aperte, e il pigiama di Tommy ridotto ad un ammasso informe ai piedi dei cassetti.
Si avvicinarono alla finestra. La luce del lampione permetteva di vedere due cuscini sgualciti sull’asfalto, probabilmente usati per ammortizzare le cadute.
Wilma guardava Peter con gli occhi lucidi, gonfi di paura. “E’…è scappato…” . “Ma ….perchè?”.
Una consapevolezza sottile si insinuò dentro l’animo di Wilma. “Deve…deve averci sentiti.”
“Cosa?” Peter pareva stupito. Il pensiero di Wilma era corso alle frasi che si erano detti, anzi quasi lanciati addosso come stracci vecchi, e come una furia si diede alla raccolta delle loro porzioni più grette. “Deve averci sentiti mentre litigavamo!”

Io te l’avevo detto che non era il caso che ci sposassimo.
E cosa avrei dovuto fare? Lasciare che la gente dicesse che non mi facevo carico di mio figlio?
Sei tu che l’hai voluto tenere

Oh, no . L’avevano detto.

Sei tu che l’hai voluto tenere

L’orrenda consapevolezza la spinse a rivolgere a Peter uno sguardo inferocito. “Mi hai accusata di esser stata io a volerlo tenere!”
“E allora?”
“Allora…lui l’ha sentito!”
“Vorresti dire che la colpa è mia?”
“Si! E’ colpa tua!”
Gli occhi di Peter si riempirono di dolore, come non avevano mai fatto prima di allora. Repentinamente si passò una mano sulla fronte e disse: “Andiamo. Lo troveremo, se siamo veloci.”
Con la mano sfiorò il braccio della moglie, che per la prima volta, dopo tanto tempo, vide in lui il ragazzo spensierato ma buono di cui si era innamorato, la simpatica canaglia che alle superiori faceva la corte più o meno a tutte. L’uomo che aveva sposato, perché nonostante tutto ciò che aveva detto, o fatto, ne era innamorata. Il padre del suo bambino. Le loro mani si intrecciarono in una stretta calda.“Si. – disse Wilma – Insieme, ce la faremo.”

David e Gordon continuavano a procedere. Ubriachi fradici ma felici.
L’importante, del resto, è essere felici.
D’improvviso, questa loro felicità totale venne rotta da qualcosa. Qualcosa che spuntò dall’angolo della strada muovendosi troppo veloce per i loro riflessi da ubriachi. Non si accorsero nemmeno dell’istante intercorso dalla comparsa all’urto, come se quell’istante fosse stato fagocitato dalle fauci fameliche del buio. Si accorsero solo dell’impatto tra la carrozzeria e la bicicletta, e videro un corpicino minuto che veniva sbalzato dal sellino.
La voce impastata di Gordon si sforzò di urlare: “Attento!” ma il suo mezzo grido si perse nel vuoto. E allo stesso modo si dissolse l’urlo del bimbo nel momento in cui la macchina gli venne addosso, intrecciandosi con lo stridore del freno che nella notte si proiettò nell’oscurità, facendo udire alla luna il grido della morte…

La macchina si fermò.
Dopo di allora, David avrebbe ricordato solo di aver visto un’espressione costernata stendersi sul viso di Gordon, e di aver pensato che fosse lo specchio della sua. Rapidamente, corsero fuori e videro la mountan bike capovolta. La ruota davanti girava come una trottola impazzita, quella di dietro era incastrata sotto un copertone della loro auto. Si guardarono attorno, ma non videro nessuno. Niente e nessuno.

Possibile che fosse così?

No, non era così. David si incamminò, cercando di non vacillare troppo, nella direzione in cui aveva visto quella sagoma piccolina – forse si trattava di un bambino – volare rovinosamente. Ed allora lo vide.
E vide che era un bimbo. Particolare ancora più agghiacciante, era un bimbo.
Signore, fa che non sia morto
Si muoveva verso di lui, e pregava. Non rideva più, adesso, no.
Fa che sia vivo, ti prego
Sentiva il peso dei suoi stessi passi capitolare pesantemente sul terreno polveroso, e stranamente aveva l’impressione di scivolare giù, nel vortice….
Non toccherò più un goccio di birra finchè vivo, ma fa che non sia morto
….una spirale che avvolgeva gli eventi nel suo assurdo e improbabile giro verso il nulla, o forse…
Eccolo, è steso lì per terra. Coi vestiti sporchi di polvere e i capelli spettinati
…verso l’orrore.
Ecco cos’era, il suo cammino. Una corsa lenta verso l’orrore.
Il bambino giaceva, come addormentato. Sul lato destro del viso, era presente un’ abrasione. Un’abrasione era presente anche sul braccio destro, resa visibile dalla manica della magliettina strappata. David si chinò sopra di lui, e una zaffata di odore di sangue misto a terra misto a sudore lo travolse come un’onda. Si girò, e vide che anche Gordon era lì. L’aveva seguito silenziosamente, e nei suoi occhi vedeva rispecchiati gli stessi dubbi che doveva ostentare lui.
E' morto?L’abbiamo ucciso?
In un attimo, ebbero entrambi la stessa certezza; la sentirono posarsi come una libellula macabra sopra le loro spalle, e sopra la sagoma della creatura stesa per terra.
La festa era finita.
Questa era l’unica cosa certa. Fosse stato morto, o vivo, fosse anche stato l’ultimo mese, o anno della loro vita, era finita. Non avrebbero più avuto il coraggio di cazzeggiare e poi bere e poi guidare; non avrebbero mai più bevuto una birra senza ripensare a quell’insopportabile evento. Non si sarebbero più guardati allo specchio senza veder riflesse le immagini di due…
Assassini…?
Le dita di David corsero sul collo del ragazzino, se pure tremanti, mentre la sua mente rovistava nei ricordi residui del corso di primo soccorso fatto tempo prima nella sua città, alla ricerca di qualcosa. Ricordava che avrebbe dovuto cercare un’arteria, un’arteria posta sotto il margine di un muscolo, e che questa avrebbe dovuto pulsare.
Non sentiva niente
I suoi occhi si mossero, molto più che inorriditi, in direzione di quelli di Gordon, recando con sé messaggi dal significato tetro.
Finchè la sentì.
L’ho sentita
Sembrava una cosa da niente, eppure l’aveva sentita, pulsare debolmente sotto il proprio polpastrello.
Dio sia lodato
Era la vita che faceva tum tum, sia pure labilmente, sotto il suo dito.
“L’ho sentita, Gordon! E’ vivo, grazie al cielo!!”
Gordon si illuminò di gioia come non mai.
“Presto, portiamolo in ospedale.”

Tommy dormiva, tranquillo come un angioletto. Pulito, sotto il lenzuolo del letto dell’ospedale, con sua madre che vegliava sopra di lui. Wilma lo guardava e gli accarezzava i capelli castani. Non vedeva l’ora che fosse di nuovo a casa.
Non appena fosse tornato, gli avrebbe lavato i capelli con lo shampoo delicato, come faceva sempre, perché i capelli di suo figlio tendevano a sfibrarsi facilmente. Soprattutto d’estate, a causa del sole cocente. In ospedale avevano fatto del loro meglio, comunque. Gli avevano medicato le ferite, gli avevano dato il paracetamolo per il dolore, l’avevano messo da solo, in una stanza calma e silenziosa. Il letto attiguo sarebbe stato occupato da lei.
Peter, in piedi davanti al letto, guardava Tommy senza dire niente. Neanche Wilma, a dire il vero, aveva detto qualcosa. Nemmeno quando le avevano detto, in ospedale, che suo figlio era stato investito da due ragazzi ubriachi. Nemmeno quando si era trovata i due giovani davanti, prima che costoro si scusassero porgendo a lei e Peter le loro più sentite scuse. Quelle scuse, ella le aveva sentite, nel momento in cui le stringevano la mano, toccarle il cuore come una carezzina. E le aveva sentite anche Peter, che li aveva ascoltati senza battere ciglio, anche se temeva di venire accusato da un momento all’altro di aver voluto sorvolare sulla questione perché quello dell’alcool era un problema che lo riguardava da troppo vicino. Temeva che Wilma avesse una reazione del genere, e per un po’ si ostinò a cercare di non incrociare il suo sguardo. Invece non fu così.
“Peter….” “Che c’è?” Lo guardò, gli occhi sembravano due pozze scure. “Cosa…cosa ci è successo?”
“Non sappiamo più parlare senza litigare. Perché?” “Bè…è da tempo che è così. Perché chiedercelo adesso?”
“Perché è ora di cambiare, Peter.” Peter apparve meravigliato, scosso dal contenuto di quella frase.
“Si, insomma…nostro figlio è quasi morto, a causa di una nostra lite. Non ti sembra che sia venuto il momento di…” “…di che cosa?” Wilma si ammutolì, pensando che tante volte aveva meditato di portare in salvo il loro matrimonio. E tutte le volte l’ancora si levava, e poi la nave salpava, ma non c’era niente da fare: naufragava di nuovo.
Era riduttivo, adesso, parlare di bisticci. I loro erano molto più che bisticci. Erano un’unione che si incrinava e si sgretolava, giorno dopo giorno. “Bè, non parli più?” Peter le si avvicinò.
“Ho paura a farlo.”
In quel momento, Peter le accarezzò una mano con la propria.
“E allora – disse - proviamo ad aver paura insieme.”
E l’abbracciò.


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