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Lettera aperta di un collega di Filippo Raciti

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Stampato il: 22/12/2024

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Autore Tema: Morgana
Oggetto: Lettera aperta di un collega di Filippo Raciti
Inserito il: 05/03/2007 08:10:35
Messaggio:

Lettera aperta di Riccardo Cazzaniga


Riccardo Cazzaniga collega dell'agente Filippo RACITI ucciso negli scontri con gli Ultras di Catania. Un testo su cui riflettere:

Filippo Raciti era un mio collega.
Ed è un onore per me potermi definire tale. In Polizia siamo tanti, migliaia.
Lui, però, faceva il mio stesso tipo di lavoro: era un sottufficiale di un Reparto Mobile, proprio come me.
Faceva quasi le stesse cose che io faccio ogni fine settimana.
Filippo Raciti io non lo conoscevo. Tanto quanto non lo conoscete voi né tutti quelli che ora si profondono in servizi strappalacrime. Però io riesco ad immaginare nitidamente il suo lavoro. Come potesse viverlo, cosa provasse mentre andava in caserma per prepararsi ad un servizio di Ordine Pubblico, che discorsi facesse con i suoi colleghi. Che cosa dicesse ai genitori, a sua moglie, alle persone che gli volevano bene salutandoli per uscire ed andare in servizio. Anche che parole scegliesse per raccontare quanto succede nei nostri stadi.

Più o meno penso fossero le stesse parole che io scelgo quando provo a spiegare tutto quanto le televisioni non hanno mai fatto vedere se non in un servizio alle otto e mezzo, prima della fine del Telegiornale e,
rigorosamente, dopo i gol delle Domenica. In un piccolo trafiletto del giornale di sport di turno, in una notizia sulle "brevissime" del Televideo. Adesso tutti sanno. Tutti hanno visto.
Ed ora tutti invocano giustizialismo, durezza, tolleranza zero, modelli esteri, repressioni. Tutti lì a sventolare il cappio, a chiedere la forca. Ora chiudono la stalla, ma i buoi dove sono andati a finire?
Dov'era prima, tutta questa gente che benpensa? Per quasi dieci anni sono stato Agente di Polizia.
A proposito, Filippo Raciti era un ISPETTORE della Polizia di Stato. Quindi un SOTTUFFICIALE della Polizia. Non un Agente ma nemmeno un Commissario come alcuni hanno detto. Almeno quando uno muore sarebbe giusto rendergli l'onore del ruolo che ricopre.
E che *****.
Lavorava al REPARTO MOBILE DI CATANIA, non alla Questura o alla Squadra Mobile. Reparto Mobile? Sembra che questo nome non entri in testa ai chi lo dovrebbe ben scandire. Però quello di Bolzaneto lo conoscono tutti, giusto? E nessuno ne ha mai storpiato il nome. Di questi dieci anni io ne ho trascorsi circa quattro a lavorare negli stadi. A fare il "celerino" come si dice in senso dispregiativo. Ho lavorato in un centinaio di partite, dalla serie A ai dilettanti, dalla Champions League a Milan - Juventus, da Livorno - Pisa a Sanremese - Imperia. Mi sono scontrato con quegli esseri che amano definirsi Ultras molte volte.

Li chiamo esseri perché definirli persone sarebbe troppo. Sono dovuto ricorrere all'ospedale in tre casi. Una volta una bomba carta mi è esplosa a qualche metro di distanza (sono stato fortunato, io) e mi ha fatto perdere temporaneamente l'udito. Un'altr a siamo stati aggrediti dai "tifosi" del Livorno a colpi di pezzi di sanitari, cinghiate, pietrate. Sono finito a terra, ho strisciato una mano sul cemento ed mi si è sradicata per 100¾ un'unghia. Infine in uno scontro con i tifosi della Juventus ho riportato un'intossicazione da gas ed una contusione ad un dito, credo per una cinghiata. Qualche altra volta sono stati lividi ed un po' di bastonate ma niente ospedale, per non specularci sopra. E ovviamente, senza ricevere nessun premio, medaglia o gratificazione di alcun tipo. NON sono un eroe, sia chiaro: sono un dipendente dello Stato che onora il suo contratto di lavoro. Punto.
Questi miei sono tre piccoli episodi, poca cosa. Però negli stessi quattro anni a qualcuno è andata peggio.
Ho visto un collega sfregiato al viso da un mattone, un ragazzo con una gamba suturata per dodici punti vicino all'arteria femorale a causa di un bottigliata, un collega con un polpaccio perforato da parte a parte da una bomba carta, un altro co n una scheggia conficcata nella palpebra a pochi centimetri dall'occhio. E poi clavicole rotte, arti fratturati, ginocchia lesionate, placche al titanio nel cranio.
Tutto questo solo in un gruppo di stadi del Nord ed in qualche anno di tempo. Nel quasi assoluto silenzio delle istituzioni e dei media. Ma tutto ciò succede da ANNI, gente.
Nell'indifferenza di moltissimi, con la connivenza di molti, a causa della paura di troppi. Paura di affrontare il problema, paura di applicare la legge, paura di essere uno Stato e non un arbusto che preferisce piegarsi che resistere. Questa mail non ha uno scopo, non deve servire a nulla, ovviamente. E' un mio sfogo personale, un modo per dare un senso agli eventi, un modo per pensare che la morte di un collega possa trovare un significato. Per questo vi chiedo semplicemente un piacere: INDIGNATEVI.

Indignatevi quando sentite di gente che uccide, picchia, devasta, danneggia, insulta, odia per una partita di calcio.
Indignatevi quando vedete persone che vanno in giro con le felpe con scritto sopra "Ultras", "Warriors", "Fighters", "Collettivo" o altre cazzate del genere vantandosi di appartenere ad un mondo di forza, furore e
valore bellico che esiste solo nelle loro teste malate. Un mondo che dovrebbe prevedere la possibilità di scannarsi reciprocamente e, anche, coinvolgere chi cerca di fermarli. Un mondo in cui l'unico valore è la
violenza infame di chi sfrutta il gruppo per sentirsi qualcuno.
Questa è gente senza palle. Uomini falliti, forti solo con la faccia coperta e le armi addosso.
Gente che da sola non vale nulla. Gente che da sola non protesterebbe per niente e contro nessuno, neppure se gli portassero via la casa o gli pignorassero tutti i loro averi, ma che in mezzo alla folla è disposta a scontrarsi in nome del Nulla.
Noi andiamo ad affrontarli con un casco concepito vent'anni fa, uno scudo che si frantuma con una pietrata ben lanciata, un manganello di gomma rigida per non cagionare troppo danno. Ma di fronte a bombe che contengono chiodi e vetri, a spranghe di ferro, a caschi integrali da motociclista, a cannoncini che sparano razzi di segnalazione nautica, a bulloni d'acciaio, coltelli, biglie di ferro, pezzi di ceramica taglienti come rasoi? Potete immaginare quanto può fare la nostra attrezzatura.

Indignatevi perché ci compriamo con i nostri soldi anfibi decenti e protezioni migliori che lo Stato non ci fornisce.

Indignatevi quando la gente dice che "anche gli sbirri si divertono a picchiare la gente" perché, credeteci, di tutte le persone in servizio in qualunque stadio d'Italia e con qualunque divisa nessuno è felice di essere
lì. Non ce n'è uno, di quegli sbirri, che non preferirebbe essere con la sua donna, con i figli o con gli amici piuttosto che in mezzo a insulti, sputi, urla, lancio di petardi e fumogeni. Credeteci, è così.

Indignatevi pensando che a fare la fine del mio povero collega potevo esserci propr io io, una persona che conoscete. Come migliaia di altri carabinieri, finanzieri, vigili urbani che prendono la centesima parte di
quanto guadagna un calciatore. Di quell'idolo della curva che arriva allo stadio un'ora prima della partita e torna nel suo albergo a cinque stelle un'ora dopo mentre noi ci siamo da due ore prima sino a tre o quattro ore dopo, sotto la pioggia e la neve, con il sole che picchia a 40 gradi sul casco e ti fa quasi svenire, con il vento gelido che dopo sei ore in piedi ti entra fin nelle viscere.

Indignatevi per la morte di Filippo. Perché morire in servizio si può, fa parte di questo lavoro, è una piccola postilla non menzionata sul nostro contratto. Ma per una partita di pallone proprio no, non è giusto.

Se conoscete qualcuno cui questa mail può servire a riflettere fate in modo che la legga.
Se pensate che qualcun altro la debba ricevere, che sia un giornale, un personaggio politico o il vostro vicino di casa inviategliela. Io non vorrei che qualcuno potesse pensare che parlo a nome di chicchessia o per conto di altri.
Per questo la mando solo a voi, che mi conoscete e sapete che vi sto semplicemente raccontando quella che mi sembra sacrosanta verità.
Ciao.

Riccardo Gazzaniga.

Chiara



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