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LE VIOLETTE DELLA RENATA

Stampato da : Concerto di Sogni
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Stampato il: 22/12/2024

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Autore Tema: cuocoligure
Oggetto: LE VIOLETTE DELLA RENATA
Inserito il: 04/11/2007 16:46:31
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LE VIOLETTE DELLA RENATA

Anche quest’anno non aveva voluto mancare all’appuntamento, nonostante il parere contrario del giovane medico.
Si era fatta coraggio ed era venuta fin quassù come faceva ormai tutti gli anni da ben cinquantatré anni.
Da quel giorno, quando le giunse la triste notizia portata dal Monaldi, non aveva mancato ad un solo appuntamento. E, non tutti gli anni erano stati facili, li ricordava tutti, uno per uno.
Quello del marzo del ’45, il primo, era stato il più tremendo.

Era salita, sconvolta, sul primo tram fino a Principe nella speranza di un treno per Arquata, da dove avrebbe proseguito, a bordo di una vecchia balilla, fino al presidio medico di Rocchetta Ligure.
Era là che era stato trasportato, dilaniato da una bomba il suo Fabio, lo sposo bambino di appena vent’anni. Lei, di anni, ne aveva diciotto, ma n’aveva sempre mostrato qualcuno più di lui. Si erano sposati quasi un anno e mezzo prima, in quel settembre del ’43 quando la guerra sembrava finita.
Ma dopo pochi giorni di matrimonio, la scelta di Fabio di andare in montagna li aveva separati. Fu una scelta dolorosa ma necessaria per evitare i rastrellamenti senza tregua che si susseguivano in città.
Ebbero poche occasioni di stare ancora un po’ assieme, ogni volta l’incontro intenso e dolcissimo, procurava loro indicibili sofferenze al momento dell’addio. Molte volte Renata avrebbe voluto fare la scelta dei monti per condividere le prove e le ansie del marito, ma ogni volta il dovere filiale verso entrambe le madri, di lei e di lui anziane ed inferme, l’aveva trattenuta.

Arrivò a Rocchetta verso le quattro del pomeriggio, sette ore dopo la partenza in tutta fretta. La lunga attesa alla stazione Principe, il rastrellamento alla stazione di Busalla, la contrattazione con l’autista di Arquata e le due soste ai posti di blocco, avevano trasformato il viaggio in un vero calvario.
L’incontro con il dottor Tosonotti, che si era prodigato per tutta la notte nella speranza di salvare il povero Fabio era stato uno dei momenti più tragici della sua vita. Quell’attimo sarebbe rimasto scolpito indelebilmente per sempre nella sua mente più ancora dell’incontro col corpo senza vita del marito e composto pietosamente in una stanzetta del piano terreno. Negli occhi del dottor Tosonotti aveva letto un paterno dolore ed un profondo disagio, che avevano reso ancora più grave il proprio strazio.
In silenzio percorse i pochi metri del breve corridoio e fu subito davanti al suo Fabio, adagiato su un lettino era avvolto in un telo che copriva completamente i danni provocati dallo scoppio, il volto disteso come quello di un bambino addormentato dopo un lungo gioco all’aperto.
Renata avrebbe voluto gridare con quanta più rabbia possibile, ma non ne fu capace, l’urlo le restò soffocato in gola e l’unica cosa che riuscì a fare fu una dolce carezza su quella fronte fredda e bambina.
Sostò a lungo in silenzio e impietrita, solo qualche lacrima scivolava sulle sue guance pallide.

Di quel giorno non ricordava altro, non il funerale che si era svolto senza addobbi e con una cassa di legno grezzo rimediata alla meglio, non l’abbraccio commosso delle donne di Rocchetta anch’esse segnate da lutti, e nemmeno ricordava i lunghi disagi del viaggio di ritorno. Nelle sue orecchie rimase solo il racconto di “Benda” degli ultimi minuti del suo Fabio.

Erano di sentinella vicino alla cappella di Dova, avevano trascorso buona parte della notte a parlare della prossima fine della guerra, del permesso che da lì a qualche ora avrebbe consentito a Fabio di rivedere la moglie, e delle speranze che entrambi ventenni proiettavano nel futuro.
Mancava poco al cambio del turno. Il sole, rossastro dei mattini invernali, era già spuntato dietro il Carmo e rischiarava bene la scarpata dove da giorni erano spuntate le prime mammole, che Fabio coltivava con gli occhi.
Quella mattina ne avrebbe raccolto un bel mazzetto e poi via dalla sua Renata.
Arrivò il cambio, “Benda” rientrò per buttarsi sul giaciglio, Fabio si attardò per raccogliere le violette come meditava da giorni.
Non erano trascorsi che pochi minuti, quando il silenzio fu rotto da un sordo boato che risuonò per tutta la valle. Una mina tedesca, lasciata mesi prima nel ripiegamento precipitoso, non era stata mai vista ed ora era stata fatale per Fabio.
Si precipitarono tutti fuori in un lampo, Fabio giaceva svenuto adagiato alla scarpata, stringeva nella destra le mammole, e dal quel che restava del fianco sinistro perdeva tantissimo sangue. Le sue condizioni apparvero subito gravi, molto gravi.
“Benda” organizzò il trasporto a Rocchetta, nel tentativo di salvare l’amico, ed era la sola cosa possibile che si potesse fare. “Marco” saltò alla guida del vecchio carro e si avviarono al presidio del dottor Tosonotti.


Da cinquantatré anni, ormai Renata ai primi di marzo saliva fino a Dova per raccogliere le violette marzoline che deponeva sulla lapide del piccolo cimitero di Rocchetta.

Nessun altro Fabio era più entrato nella sua vita.
Una volta l'anno, dopo il venticinque aprile invitava a pranzo il “Benda” per farsi raccontare ancora una volta la storia delle violette.

cuocoligure


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