Fine di un'altra corsa. Prossima stazione, libertà
Stampato
da : Concerto di Sogni
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Stampato il:
30/10/2024
Tema:
Autore Tema: emofione
Oggetto:
Fine di un'altra corsa. Prossima stazione, libertà Fine della corsa. “Proxima estacciòn, Bellaterra” L’ultima estacciòn, la libertad (di dare e ricevere e di liberarsi da tutti questi pensieri che sembrano un “Kreislauf” che si rincorre e gira gira gira…) Olè!
Inserito il:
07/05/2004 16:50:54
Messaggio:
Sul trenino che ci conduceva ad uno dei poli universitari della periferia di Barcellona,
tra gli sguardi annoiati dei pendolari di Catalogna e le risa forzate dei soliti americani vacanzieri,
riflettevo sulla opportunità di vivere da solo, per non dover rendere conto a nessuno del mio operato.
Era la primavera del 2000, da poco l’Emiliano studente ( e residente in casa dei genitori dagli zero ai 25 anni) aveva lasciato il posto al neo-dottore.
Non si sarebbe detto però, da quei jeans costantemente portati a mezzo sedere, da quei capelli finto trasandati, da quelle scarpe da ginnastica blu scure, le mie preferite.
Con me un amico fraterno, una valigia piena di inutili magliette e magliettine, pochissimi soldi e un indirizzo in cui sperare, quello di un altro vero amico che ci avrebbe dovuto ospitare. Lo fece alla grande…
Momento di svolta personale, suggellato dal tattoo che ci facemmo insieme, io e Stefano, sulla gamba destra. Il mio un tribale cui detti proprio il significato di cambiamento, di nuovi percorsi da intraprendere. Il suo due assurdi occhi di gatto. Mah…
Da lì in poi una girandola di situazioni incredibili, tanto inimmaginabili da far sembrare i quattro anni che sono seguiti un’altra intera vita.
Profondi cambiamenti, direi rivoluzioni, anche all’intero del mio cuore, e della mia testa.
Prime esperienze di lavoro “serie”, prime fughe verso l’allora ignoto mondo d’Irlanda, primi ritorni voluti e tuttavia sofferti, nuove avventure di lavoro e di vita nella calda Roma Capoccia, nuovi ripensamenti per il ritorno definitivo a Livorno.
Adesso cammino da solo, e dopo aver convissuto sia a Dublino che nella Capitale con una marea di personaggi diversi per cultura, estrazione sociale, ma soprattutto cervello, ho una soffittina, tutta per me, che mantengo a fatica, visti gli assurdi costi degli immobili (e poi qualcuno mi vorrebbe far credere che il discorso della scala mobile sia anacronistico ed inapplicabile…sì, sì..me lo pagate voi l’affitto a fine mese cari politicanti?), ma che mi dà grosse soddisfazioni.
Non credete sia magnifico, ad esempio, potersi chiudere la porta alle spalle, alla sera, afferrare il libretto di turno (attualmente Jack La Folla di Cugia), accendere il compact, e leggere con passione accompagnato dalle musiche di Ennio Morricone, e solo da quelle?
Nessuno intorno, a meno che non sia abbia voglia di compagnia, nel qual caso basta una telefonata..et voilà, la soffittina si anima delle voci, delle risa, dei commenti, di amici e, ogni tanto, di qualche “amichetta”.
Impensabile fino a qualche tempo fa…
Eppure stavo bene, eppure ho sempre creduto di aver bisogno di un amore, di una donna che si curasse di me, dei miei vizi, dei miei assurdi malesseri. Una donna che si svegliasse al mattino col mio viso da “maghrebino intellettuale di sinistra con cenni di argentinità” stampato nella mente, una donna che mi adorasse e che si lasciasse adorare alla mia maniera.
Non è così, e più che passa il tempo, e più che mi abituo a non avere appigli, a non avere particolari aiuti se non quelli di mammà e del mio mitico nucleo familiare, e più che mi sento pago.
E non sono uno di quelli che sostiene che essere single è bello ed è una condizione che può durare all’infinito, assolutamente no.
Levaci anche la passione, l’amore, magari qualche futuro pargolo, poi dimmi perché dovremmo sgobbare dalla mattina alla sera senza uno scopo né una meta precise.
Il fatto è che, per la prima volta dopo lunghi anni di fidanzamenti vari, sento davvero mia la condizione di essere umano bastante a se stesso, pur con qualche momento di vuoto e di nostalgica riflessione.
E’ in quest’ottica che è nata l’idea del secondo tattoo, quello che imprimerò per sempre, sulla mia pelle, tra la spalla ed il pettorale sinistro, il prossimo 19 di Maggio.
Stavolta si tratta di un simbolo celtico (perché a me l’esperienza in terra d’Irlanda m’ha cambiato, volente o nolente, l’intera visione del mondo che ho intorno), più precisamente di un Triskell di forma circolare, che simboleggia la conoscenza, quella che spererei di aver acquisito nei confronti almeno di me stesso, la forza, quella che ho sempre cercato di far venir fuori riuscendo spesso almeno in questa impresa, e l’amore, che ho rifuggito o calmierato in troppe occasioni e che ora, invece, non mi fa affatto alcuna paura, nessun timore insomma.
E lo farò da solo, stavolta, perché questo è quello che sento, senza alcuna forma di tristezza ma anzi di pienezza, di appagamento, di essere.
Solo, nel senso di uno, essere completo, imperfetto, certo, ma né parassita né organismo adatto per ospitare altre forme di parassitismo.
Che poi il termine parassita dà l’idea di qualcuno che succhia, che approfitta, dunque non è neanche quello giusto; forse sarebbe meglio pensare alla Luna, che vive solo se c’è il Sole.
Ecco, io non pretendo più di essere il Sole, per nessuno, ma voglio sperare di poter fungere da stella solitaria, da pianeta che si autoalimenta, che non rifugge la compagnia, no davvero (io sono un essere sociale, assolutamente), ma che, per un periodo della sua vita, quello attuale, non vuole neanche ruotare all’interno di alcuna galassia preconfezionata, accogliente o ricca di ostacoli che sia.
E siccome i tattoo devono essere dispari, per forme scaramantiche assurde ma da me, limitato essere “super superstizioso”, seguite se non con convinzione almeno con reverenza, arriverà anche il terzo prima o poi, quello definitivo, quello che chiude il cerchio, quello che mi stamperò addosso quando avrò trovato il mio Nirvana, che detto così sembra qualcosa di irraggiungibile, e che invece è solo la consapevolezza di non voler andare oltre, di non voler ancora inseguire l’ignoto, di non volersi più porre migliaia di domande, di cominciare a sfruttare quell’impeto leonino come riuscivo a fare una volta, da adolescente, e cioè in positivo, in pace, con felicità e soprattutto, a pro di qualcun altro…
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