LIBRI IN PRIMO PIANO
La rivoluzione dimenticata
Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna
Intervista al Prof. Lucio Russo
di Carmine Monaco
Il Rinascimento è un periodo ritenuto fondamentale per la formazione della moderna cultura occidentale. Alle radici di questo grande movimento di rinascita scientifica e culturale vi sono le opere di filosofi come Raimondo Lullo, Pico della Mirandola, Francesco Giorgi, Enrico Cornelio Agrippa, Durer, Giordano Bruno e altri, che hanno proposto creazioni mirabili del pensiero umano. Tuttavia, non solo il grande pubblico ma anche classicisti, storici e scienziati spesso trascurano il ruolo fondamentale del pensiero scientifico greco, alla base di molte delle creazioni e delle invenzioni del genio rinascimentale incarnato da uomini come Leonardo da Vinci, Mariano Taccola e Francesco di Giorgio. Pensiero, opere e progetti giunti alla portata degli umanisti e degli ingegneri italiani attraverso i lucrosi traffici di manoscritti tra Costantinopoli e la nostra penisola, a cui si dedicarono numerosi mercanti come Giovanni Aurispa.
Ci conduce lungo questo cammino di riscoperta una guida d'eccezione, il prof. Lucio Russo (Venezia 1944), docente presso l'Università Tor Vergata di Roma. Lucio Russo ha insegnato nelle università di Napoli, Modena e Roma e ha trascorso periodi di studio a Parigi e a Princeton. Si è occupato di meccanica statistica, calcolo delle probabilità e storia della scienza. Con Feltrinelli ha pubblicato La rivoluzione dimenticata (1996, finalista del premio Viareggio per la saggistica, 1997, nuova edizione ampliata e aggiornata UE 2002), un'opera in grado di svelare, mediante un linguaggio chiaro e appassionante, parecchi "misteri" e retroscena della incredibile produzione filosofica e scientifica di uno dei periodi più floridi e fecondi della storia umana.
D. Professor Russo, lei giustamente allude al pensiero scientifico greco come ad una "rivoluzione dimenticata". Come è stato possibile "perdere la memoria" di una trasformazione di tale portata per l’umanità?
R. Credo che abbiano agito vari meccanismi. Molti risultati specifici, sia scientifici sia tecnologici, sono stati a lungo dimenticati a causa della perdita dei testi e delle realizzazioni tecnologiche. Per esempio è questo il caso delle condotte forzate, riscoperte solo grazie all'archeologia del XX secolo, o dell'antico calcolo combinatorio, che viene riscoperto in questi anni grazie all'analisi di passi che, pur non essendosi perduti, non erano mai stati compresi. Sono convinto che questo tipo di lavoro sia lontano dall'essere terminato. Altri risultati, come l'eliocentrismo di Aristarco di Samo, pur non essendo stati del tutto dimenticati, sono stati respinti nel ruolo di bizzarre anticipazioni dei corrispondenti risultati moderni, prive di qualsiasi rilevanza nell'epoca loro propria. Infine i risultati che sono stati usati con continuità, come la geometria euclidea o la geografia astronomica, proprio per il loro continuo uso nell'insegnamento attraverso i millenni si sono snaturati nella memoria: non vengono associati ad una rivoluzione culturale avvenuta nel primo ellenismo, ma sono visti per lo più come risultati elementari al di fuori della storia, con l'aggravante di evocare ricordi scolastici.
D. Possiamo parlare di una data e di un luogo di nascita per il "pensiero scientifico" così come modernamente inteso?
R. Mi sembra sia databile abbastanza esattamente, tra la seconda metà del IV secolo a.C. e l'inizio del secolo successivo. Quanto al luogo non penso sia determinabile con più precisione che parlando di "mondo greco". Alessandria ha avuto certo un ruolo molto importante, ma la "rivoluzione scientifica" era iniziata prima che la città fosse fondata, in Grecia e nei centri della Magna Grecia e dell'Asia Minore, ed ebbe uno sviluppo policentrico.
D. Quali sono, tra quelle degli scienziati e dei filosofi greci, le figure che, a suo avviso, hanno maggiormente contribuito a cambiare il corso della storia?
R. Credo che la nascita della scienza (come del resto quella della filosofia alcuni secoli prima) sia un fenomeno storico, non attribuibile a singole personalità di eccezione. Volendo però ricordare alcuni degli uomini in prima linea nella costruzione del metodo scientifico nominerei Eudosso, Eraclide Pontico, Euclide, Archimede, Erofilo di Calcedonia, Erasistarto di Ceo, Aristarco di Samo, Crisippo, Apollonio di Perga e Ipparco.
D. Spesso si allude ad una generica civiltà ellenico–latina. In realtà, quale influenza hanno avuto i Romani sulla scienza e sulla tecnologia greca?
R. All'inizio, quando distrussero i centri ellenistici, tra il III e il II secolo a.C., i Romani ebbero appunto un ruolo di distruttori. In un secondo tempo, dal I secolo d.C., l'impero romano fornì un ambiente adatto, se non allo sviluppo innovativo, almeno alla diffusione quantitativa della tecnologia, il cui livello qualitativo tende però a decrescere nel tempo. La scienza esatta rimase invece sempre estranea agli interessi degli intellettuali latini, con poche eccezioni, delle quali la principale è Lucrezio. Anche Lucrezio però, per quanto geniale, non è certo uno scienziato.
D. In che misura il Rinascimento può definirsi diretta derivazione del pensiero greco e quali tra le sue produzioni ritiene maggiormente significative di tali influenze?
R. Certamente la riscoperta del pensiero greco ha svolto un ruolo essenziale, senza il quale il Rinascimento sarebbe impensabile. Non parlerei però di "diretta derivazione" in quanto il pensiero greco era deformato attraverso la scelta delle opere e la loro interpretazione e veniva inserito in una realtà nuova. Credo che le influenze del pensiero greco siano altrettanto essenziali nella filosofia, nella letteratura, nelle arti figurative e nella scienza. L'influenza sulla scienza è forse oggi meno evidente proprio perché fu più profonda e si estese ben al di là dei limiti cronologici usualmente assegnati al Rinascimento. Per esempio in un mio piccolo libro che sta uscendo in queste settimane [L. Russo, Flussi e riflussi, Feltrinelli, maggio 2003, n.d.r.] cerco di ricostruire il filo continuo, finora ignorato, che, trasmettendo informazioni dalla scienza ellenistica, generò la moderna teoria delle maree.
D. Quali sono i rami della scienza greca di cui ci restano maggiori testimonianze e applicazioni moderne?
R. Gli aspetti della scienza greca la cui sopravvivenza nella scienza moderna sono più importanti, non sono quelli interni a particolari applicazioni (la fenomenologia studiata dalla scienza moderna è molto più vasta) ma sono quelli ben annidati nel cuore stesso del metodo scientifico: strumenti intellettuali come la dimostrazione matematica, il metodo sperimentale o anche la logica proposizionale o l'idea che gli stessi fenomeni possano essere spiegati con più teorie sono tutti eredità preziose del pensiero greco.
D. Quali sono i luoghi comuni più diffusi circa la scienza antica, e perché questi toccano il grande pubblico e spesso anche gli addetti ai lavori?
R. Uno dei principali è quello che la scienza greca fosse speculativa e disinteressata alle applicazioni. Si tratta di un luogo comune che deforma la realtà storica ancora più di quanto la visione neoclassica avesse deformato l'arte figurativa greca. L'origine è però, a mio parere, simile. Il neoclassicismo aveva formato la sua idea dell'arte greca sull'esame di tarde copie romane. Analogamente le nostre idee sulla scienza greca si sono a lungo basate sugli esiti di una lunga tradizione che aveva attraversato il medioevo trasformando l'immagine dell'antica scienza. La trasformazione doveva molto alle tendenze neoplatoniche in auge nel periodo imperiale e nella tarda antichità e aveva agito selezionando le opere, deformandone spesso il testo, corredandole di commenti e, soprattutto, rendendole avulse dalle applicazioni, che non potevano essere copiate e tramandate allo stesso modo dei manoscritti.
D. La relazione tra potere, scienza e tecnologia era molto evidente in Grecia: si possono delineare delle analogie con il nostro tempo e la nostra società?
R. La relazione tra potere, scienza e tecnologia fu molto diversa all'epoca della Grecia classica, nei regni ellenistici e in epoca imperiale. Mentre i sovrani ellenistici usarono lo sviluppo della scienza e della tecnologia come strumento di potere, durante l'Impero Romano fu assegnato questo ruolo solo, e in piccola parte, alla tecnologia. La situazione attuale è ovviamente diversa, ma mi sembra che in molti settori la ricerca che continua a dirsi "scientifica" divenga sempre più tecnologica. Non voglio affatto difendere il valore di una scienza pura disinteressata alle applicazioni. Credo che le applicazioni siano state uno stimolo essenziale dello sviluppo scientifico. Si può però parlare di sviluppo scientifico solo se si apre la strada ad un insieme virtualmente illimitato di applicazioni possibili e non se si sviluppa una singola applicazione. In alcune epoche gli scienziati hanno aperto la strada a tante possibili applicazioni che vennero poi sviluppate da inventori o ingegneri. In altre epoche vi è un patrimonio di conoscenze sufficiente per uno sviluppo tecnologico che non dipende da ulteriori progressi scientifici. Mi sembra si sia verificato un passaggio dalla prima alla seconda situazione sia nell'antichità sia in tempi recenti.
D. In quali campi la scienza greca può tuttora fornirci preziose indicazioni? L'impiego delle energie naturali è tra queste?
R. Ripeto che le lezioni fondamentali sono di metodo. Certo, l'economia greca non era basata su una crescita esponenziale dello sfruttamento delle risorse disponibili e quindi possiamo imparare qualcosa anche sull'impiego delle risorse naturali. Per esempio nei casi dell'acustica e del riscaldamento i Greci cercavano di ottimizzare rispettivamente l'ascolto o la temperatura regolando l'interazione tra fenomeno fisico e uomo, mentre noi siamo abituati a impiegare risorse per ricreare un fenomeno simile a quello desiderato senza curarci di sprechi di risorse e di danni collaterali. Ascoltiamo così con dispendiosi altoparlanti suoni ottenuti alterando quelli originali e ci rinfreschiamo con impianti che rovesciano calore all'esterno. Un migliore equilibrio tra uomo e ambiente, come quello che permetteva di ascoltare direttamente l'attore che sussurrava nel teatro di Epidauro, potrebbe essere utile anche oggi.
D. Quale potrebbe essere, oggi, la nostra "rivoluzione copernicana"?
R. Penso che dovremmo recuperare l'antico livello di consapevolezza e umiltà che caratterizzava la stretta relazione tra episteme e techne, senza illuderci di raggiungere Verità assolute sulla struttura ultima dell'universo. Avrei bisogno di molto più spazio per sviluppare questo punto, ma ho già cercato di farlo nel libro di cui stiamo parlando.
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Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli 2001, pp. 494, Euro 12,91
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I Lettori che lo desiderano potranno rivolgere le loro domande al Prof. Russo inviandole al nostro indirizzo e-mail: harpofdavid@email.it
SULLE SPALLE DEI GIGANTI.1
Cabbala e occultismo nell'età elisabettiana
Il pensiero cabbalistico medioevale e il Rinascimento
di Gianni Sperandeo
Nella scorsa presentazione della vostra iniziativa, per la quale mi complimento con gli autori Monaco e Datola, ho molto apprezzato il passaggio che diceva: "Tradizione ebraico–cristiana e pensiero ellenico–latino sono in vario modo sempre presenti alla base dei grandi cambiamenti che hanno interessato il vecchio e il nuovo continente, dal Rinascimento alla Riforma, dall’Illuminismo alle ideologie liberali, dai movimenti rivoluzionari e democratici alle più importanti dottrine scientifiche anche del nostro tempo". E' assolutamente vero, così come è vero che bisogna lavorare per "recuperare all’attenzione del pubblico quei significati apparentemente "dimenticati" o posti in secondo piano dall'ormai generale appiattimento culturale, dalle sterili contrapposizioni d’interessi e dai conflitti di ogni tipo, per renderli nuovamente portatori di novità e cambiamenti positivi".
Mi permetto di aggiungere, però, che se è vero che il diffuso degrado della qualità della democrazia è segnalato, tra l'altro, dal terrorismo internazionale di matrice fondamentalista e dalla rinascita del razzismo e dell’antisemitismo in Europa, tale degrado è però dovuto, in fin dei conti, alla incapacità della maggior parte degli uomini di accettare l'assunto di base della filosofia lulliana, principio non esoterico e, anzi, scritto e dipinto addirittura: l’incisione raffigurante quattro uomini, un ebreo, un mussulmano, un cristiano e un gentile, seduti ai piedi dei cinque alberi dell’arte lulliana, "sembrano contemplare lo scorrere placido di un ruscello, sullo sfondo di un ricco paesaggio rupestre, mentre una donna a cavallo, raffigurante l’Intelligenza, avanza controcorrente verso la sorgente di quelle acque fresche", è vero, ma innanzi tutto stanno insieme. Abbiamo ancora, oggi come allora, la capacità di "stare insieme" apprendendo gli uni dagli altri senza tentare di cambiarci a vicenda?
Raimondo Lullo subì personalmente le conseguenze delle sue teorie. Soffrì moltissimo per le incomprensioni di cui fu vittima: pochissimi, infatti, sia tra gli esponenti della cristianità sia tra quelli "delle brillanti civiltà dei mussulmani e degli ebrei spagnoli", accettavano l'idea di formare, come scriveva Monaco, un mondo complementare a quello cristiano, in quanto la maggioranza attingeva la loro sapienza ad un’unica sorgente: quella della prevaricazione sugli altri: i mussulmani discriminavano cristiani ed ebrei, i cristiani discriminavano mussulmani ed ebrei, gli ebrei, anche se avessero voluto, non potevano discriminare un granché e per lo più subivano ora dall'uno, ora dall'altro (un po' meno, però, dai mussulmani). Ciò nonostante è assolutamente indispensabile che "ciascuno di quei quattro uomini/popoli faccia del suo meglio per recuperare questa visione del mondo", così come aveva visto giusto Monaco a rilevare "quasi l'aspetto di una profezia l'aver posto", il Lullo, "proprio una donna a simbolo dell'Intelligenza capace di risalire la corrente".
Forse non è un caso che sia stata proprio una donna, Frances A. Yates, a rilevare alcuni aspetti quasi sconosciuti ai più, relativi ad esempio al grande dono che il pensiero cabbalistico medioevale ha fatto agli uomini del Rinascimento. A proposito del ruolo svolto da Pico della Mirandola come uno dei fondatori del pensiero cabbalistico cristiano, scrive infatti Yates: "Un aspetto di questa vicenda che non sembra essere stato sufficientemente posto in risalto è il fatto che, tramite l'introduzione della Kabbalah cristiana da parte di Pico, un movimento ebraico moderno e contemporaneo investì l'evolversi della mentalità e della spiritualità europea. Questo rappresentò sicuramente una novità, un significativo emergere dal medioevo" (p. 28).
Lo stesso Raimondo Lullo e la sua arte venivano soprendentemente citate da Pico della Mirandola come cabbalistiche, pur non avendo egli adoperato l'ebraico nella sua arte. La posizione di Pico sulla Kabbalah è contenuta nelle settantadue Conclusiones cabbalistiche che egli tentò inutilmente di presentare ad una commissione di "dotti nella fede", ma le sue audaci affermazioni sollevarono considerevoli disapprovazioni ortodosse, al punto che una delle sue più belle opere, l'Oratio de hominis dignitate, altro non è che una apologia delle sue idee. Come a dire che bisogna soffrire, spesso, per produrre cose degne di restare nel tempo. Consoliamoci così.
Frances A. Yates, Cabbala e occultismo nell'età elisabettiana, Einaudi 1979, pp. 240, Euro 13.
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SULLE SPALLE DEI GIGANTI.2
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano
La cosmologia galileiana
di Diana Datola
"[...] la differenza che è tra gli uomini e gli altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco dissimile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. Qual proporzione ha da uno a mille? e pure è proverbio vulgato, che un solo uomo vaglia per mille, dove mille non vagliano per un solo. Tal differenza depende dalle abilità diverse degl'intelletti, il che io riduco all'essere o non essere filosofo: poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli, chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in più e men degno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira più alto, si differenzia più altamente; e 'l volgersi al gran libro della natura, che è 'l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzare gli occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d'Artefice onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno è più spedito e più degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce l'opera e l'artifizio". (Galileo Galilei, Al Granduca di Toscana, in apert. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a cura di L. Sosio, Einaudi 1970, p. 3-4).
Libero Sosio, curatore dell'edizione torinese dell'opera galileiana, ha corredato il testo di un apparato di note critiche essenziali e chiare, tali da costituire una guida illuminante al pensiero galileiano e a quello scientifico-filosofico dell'epoca. Una delle spiegazioni più illuminanti per la sua semplicità è quella che spiega il concetto di "filosofia" in Galileo. Grosso modo - sostiene Sosio - per Galileo la filosofia si differenzia dalla scienza pura nella misura in cui oggetto della sua indagine è la realtà ("Noi non cerchiamo quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto"). Filosofia è conoscenza vera, reale della vera costituzione del mondo, ragion per cui Galileo definì Copernico "filosofo" in quanto indagatore della reale costituzione dell'Universo: "poi, vestendosi l'abito del filosofo, e considerando se tal costituzione delle parti dell'universo poteva realmente sussistere in rerum natura, e veduto che no, e parendogli pure che il problema della vera costituzione fusse degno d'esser ricercato, si messe al'investigazione di tal costituzione, conoscendo che se una disposizione di parti finta e non vera poteva satisfar all'apparenza, molto più ciò avrebbe ottenuto dalla vera e reale, e nell'istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del mondo" (Galileo a Mons. Piero Dini, marzo 1615, Ed. Naz. XII, 297).
Galileo chiese per sé il nome di "filosofo" a Cosimo II de' Medici come "titolo e pretesto del suo servizio" e non come espressione della consapevolezza della fondazione di una nuova filosofia, concepita come un sistema compiuto e coerente di idee da opporre a quello di Aristotele. La filosofia galileiana è una libera indagine sulla costituzione della natura, un "libero filosofare circa le cose del mondo e della natura". L'invettiva galileiana prendeva spesso di mira gli "ingegni vulgari timidi e servili", che definiva tutt'al più "Istorici, o Dottori di memoria", poiché "non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di Filosofo".
Qualcuno sostiene che forse oggi non è più necessario leggere opere come il Dialogo galileiano, in quanto è ormai un dato acquisito che la Terra gira intorno al Sole. Una simile affermazione è invece la dimostrazione della necessità assoluta di conoscere e far conoscere quest'opera. La cosmologia galileiana non può essere ridotta alla "ormai scontata" questione della contrapposizione tra le teorie copernicana e tolemaica, perché è molto di più: è la testimonianza di un passaggio epocale che ha prodotto frutti di cui si è avvantaggiata l'umanità intera, attraverso il conflitto tra ragione e dogma, tra la libera ricerca della conoscenza e l'imposizione di "verità" prive di qualsiasi fondamento, inflitte all'umanità con l'artifizio, la menzogna e la violenza. Quanto coraggio traspare dall'inizio del dialogo della Terza giornata, teso a denunciare le manovre con cui le "autorità" tentavano di impedire la diffusione della verità scientifica attraverso l'opposizione di tesi assurde; coraggio che vorremmo ispirasse oggi l'azione di coloro che hanno il compito e il dovere di combattere le oscurità medioevali, i nuovi dogmatismi e fondamentalismi provenienti da tante parti del mondo:
SAGREDO. Il desiderio grande con che sono stato aspettando la venuta di Vostra Signoria, per sentir le novità de i pensieri intorno alla conversione annua di questo nostro globo, mi ha fatto parer lunghissime le ore notturne passate, ed anco queste della mattina, benché non oziosamente trascrose, anzi buona parte vegliate in riandar con la mente i ragionamenti di ieri, ponderando le ragioni addotte dalle parti a favor delle due contrarie posizioni, quella d'Aristotile e Tolomeo, e questa d'Aristarco e del Copernico. E veramente parmi, che qualunque di questi si è ingannato, sia degno di scusa; tali sono in apparenza le ragioni che gli possono aver persuasi, tuttavolta però che noi ci fermassimo sopra le prodotte da essi primi autori gravissimi: ma, come che l'opinione peripatetica per la sua antichità ha auti molti seguaci e cultori, e l'altra pochissimi, prima per l'oscurità e poi per la novità, mi pare scorgerne tra quei molti, ed in particolare tra i moderni, esserne alcuni che per il sostentamento dell'opinione da essi stimata vera abbiano introdotto altre ragioni assai puerili, per non dire ridicole.
SALVIATI. L'istesso è occorso a me, e tanto più che a Vossignoria, quanto io ne ho sentito produrre di tali, che mi vergognerei a ridirle, non dirò per non denigrare la fama de i loro autori, i nomi de i quali si posson sempre tacere, ma per non avvilir tanto l'onore del genere umano. Dove io finalmente, osservando, mi sono accertato esser tra gli uomini alcuni i quali, preposteramente discorrendo, prima si stabiliscono nel cervello la conclusione, e quella, o perché sia propria loro o di persona ad essi molto accreditata, sì fissamente s'imprimono, che del tutto è impossibile l'eradicarla giammai; ed a quelle ragioni che a lor medesimi sovvengono o che da altri sentono addurre in confermazione dello stabilito concetto, per quanto semplici ed insulse che elle siano, prestano subito assenso ed applauso, ed all'incontro, quelle che lor vengono opposte in contrario, quantunque ingegnose e concludenti, non pur ricevono con nausea, ma con isdegno e ira acerbissima: e taluno di costoro, spinto dal furore, non sarebbe anco lontano dal tentare qualsivoglia machina per supprimere e far tacere l'avversario; ed io ne ho veduta qualche esperienza.
SAGR. Questi dunque non deducono la conclusione dalle premesse, né la stabiliscono per le ragioni, ma accomodano, o per meglio dire scomodano e travolgon, le premesse e le ragioni alle loro già stabilite e inchiodate conclusioni. Non è ben adunque cimentarsi con simili, e tanto meno, quanto la pratica loro è non solamente ingioconda, ma pericolosa ancora. [...]
Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a cura di L. Sosio, Einaudi 1970.TEATRO
La Casa delle Culture-Metateatro e la European Association for Jewish Culture
presentano
dal 29 maggio al 5 giugno 2003 ore 21.15, domenica ore 19.00, lunedì riposo
adattamento del racconto "L'ultimo demone" di Isaac Bashevis Singer
di e con Olek Mincer
musiche dal vivo eseguite da:
Massimo Coen (violino) Gabriele Coen (clarinetto)
scene e costumi: Lillo Bartoloni e Luisa Taravella
suono: Claudio Mapelli e Paul Harden
luci: Daniele Petroni
foto: Riccardo Bergamini
casa delle culture-metateatro via San Crisogono 45 - Roma
prenotazione e info: 06 583333253 / 06 ingresso €12,00 ridotto € 7,00
Con il patrocinio dell’Istituto Polacco di Roma e del Centro di Cultura Ebraico della C.E. Roma
"Io, un demone, vi testimonio che non esistono più demoni. A che servono i demoni, se adesso l'uomo stesso è un demone? Perché persuadere al male chi è già pronto? Io sono, forse, l'ultimo della mia stirpe" (
I.B. Singer )Giovedì 29 maggio alla Casa delle Culture- Metateatro in via San Crisogono, 45 a Roma, alle ore 21,15 debutta A SHED, IL DEMONE DI TISHEVITZ, di e con Olek Mincer, libero adattamento del racconto "L'ultimo demone", di Isaac Bashevis Singer, pensato come un monologo del protagonista, intercalato con musiche e canzoni eseguite dal vivo da Massimo e Gabriele Coen. Lo spettacolo rimane in scena fino al 5 giugno.
Il racconto, uno dei più importanti e perfetti del Premio Nobel I.B. Singer, inserito nella raccolta Gimpel l’idiota (1957) tratta degli eventi della Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di una creatura sovrannaturale, un demone. La vicenda, benché impregnata di elementi del mondo ebraico orientale, come sempre nei racconti di questo autore, ha allo stesso tempo valori così universali da essere anche tristemente attuale.
"Diavoli, spiriti, angeli e fantasmi abitavano con noi - ricorda Erri De Luca, nella presentazione allo spettacolo - erano la prova che non solo gli esseri umani hanno bisogno dell'invisibile, ma che esso era implicato con noi. Che fosse per invidia o per protezione l'aldilà si cura dei vivi. La narrativa e il teatro yiddish sono frequentati da fantasmi. Il dibbùk, dal verbo ebraico "davàk" attaccare, "l'appiccicato addosso", lo spirito di un defunto che si artiglia a un vivo e lo governa. La creatura umana era attenta all'invisibile non per superstizione ma per sviluppo di centri nervosi di rilevazione di presenze. Così il giovane rabbi di Tishevitz sa che il pensiero di vanagloria che s'intrufola in lui mentre studia in lingua sacra è opera al nero, interferenza esterna di sobillatore al quale chiedere subito: "Chi sei ?…"
Nel suo racconto–monologo Singer dà voce a una creatura proveniente dal mondo degli abissi, a un demone, uno shed in yiddish, un demone appartenente alla specie di demoni che hanno riconosciuto la Torà, la Bibbia, ebreo e molto umano. Come ha scritto David Roskies, si tratta di un demone cantastorie che, per sopravvivere, gioca con le lettere dell’alfabeto ebraico. Racconta così il suo passato, la distruzione del mondo ebraico, che comprende anche il mondo demoniaco, e il suo presente. Il presente d’un sopravvissuto.
Il demone è un alter-ego di Singer stesso, perché che cosa fa uno scrittore yiddish, se non giocare con le lettere ebraiche? E, come il suo demone, Singer descrive e lamenta un mondo che aveva conosciuto di persona.
Insieme con il protagonista Olek Mincer , artista polacco dal 1984 in Italia, formatosi a Varsavia (dove per dieci anni è stato membro del Teatro Statale Ebraico) e poi a Roma alla scuola Fersen, sono presenti sul palco due musicisti di grande esperienza: il violinista Massimo Coen, fondatore e anima dei "Solisti di Roma" e suo figlio, Gabriele, sassofonista, clarinettista e leader del gruppo klezmer romano "Klezroym". Fuori dal palco il musicista Claudio Mapelli, da anni attivo nel mondo della sperimentazione, che sostituisce Gabriele Coen il 30 maggio.
Brani tradizionali folklorici e religiosi convivono con i suoni elettronici e si intrecciano al testo, in un insieme allo stesso tempo evocativo e intensamente rivolto al presente.
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Nel foyer della Casa delle Culture-Metateatro saranno esposti quadri e sagome di Lillo Bartoloni, che firma anche scene e costumi dello spettacolo. L’artista romano ha incontrato il mondo yiddish evocato nei romanzi e racconti di Singer nel 1996. Le tristezze e le paure di un periodo che non aveva conosciuto, le vie misteriose di città, sparite o distrutte dalla guerra, gli hanno ispirato volti, muri e lo hanno portato a dipingere solo quella particolarissima realtà, tanto da dichiarare: "… In questi anni di poco respiro e di gusto sempre più uniforme, il nascondermi nel mio studio con i libri di Singer e da loro ricevere linfa per me vitale, è un bel sogno lungo sette anni".
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da OLEK MINCER - NOTE ALLO SPETTACOLO
:"Fare teatro, essere un attore professionista: credo che tutto ciò dovrebbe essere inteso come un gioco serio e rigoroso, certo, ma come un gioco (del resto, non sono appunto ‘seri e rigorosi’ anche i giochi dei bambini?). Ma per un attore di cultura yiddish, che si occupa di temi ebraici nel nostro presente, nel mondo del dopo Shoà, fare teatro è un anche un tentativo di tornare - o meglio di ritrovarsi dentro – a quel mondo così violentemente distrutto dalla furia nazista. Un tentativo forse sempre maldestro e condannato al fallimento, ma che finisce per venir sempre ripetuto, in una sorta di coazione a ripetere…
"Ho deciso di mettere in scena L’ultimo demone perché mi identifico con il protagonista. Anche recentemente, andando in Polonia, ho constatato che la mia infanzia è capitata nel momento più vuoto e oscuro della storia degli ebrei in Polonia, a parte il periodo della guerra. Fino al 1968 c’erano in Polonia comunità ebraiche con scuole, giornali, attività. Poi con l’ultima emigrazione , in quell’anno, sono rimasti i ‘singoli’: così non ho potuto avere né amici, né colleghi ebrei perché mancavano punti di riferimento, centri di aggregazione per un ragazzo della mia età. Dal 1989 in Polonia è risorta la vita ebraica, ma io dal 1984 vivo in Italia.
"Il mio adattamento del racconto di Singer è pieno di canzoni che rievocano probabili abitanti dello shtetl distrutto (Tishevitz) ancora vivi nella testa dell’unico sopravvissuto, un demone, condannato a un esilio forzato dopo un fallito tentativo di corrompere un rabbino. Quando potrebbe finalmente andarsene da quel luogo - dopo la distruzione del suo mondo- vi rimane per scelta, avvinghiato a un libro profano di racconti yiddish: proprio quello che è successo a I.B. Singer. La cosa più importante per me è stata la frase nel testo in yiddish "ebreo dimentica…": mi ha fatto capire quanto l’elaborazione della memoria aiuti ad andare verso il futuro"
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A Shed
è realizzato grazie alla sovvenzione della European Association for Jewish Culture di Londra. La EAJC ha definito il progetto di A SHED uno dei migliori progetti teatrali europei da realizzare nella stagione 2003/2004.Ufficio stampa Giovanna Mazzarella: 06.58.18.246 – 348.38.05.201